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Così vent’anni fa l’Ulivo consegnò l’Italia alla dominazione germanica

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[pullquote]…..Il paradosso vero di tutta la vicenda è quello per cui i protagonisti della vicenda, i più filo euro e quindi i più responsabili dell’ordoliberalismus dilagante, furono le forze socialiste e cristiano sociali europee…[/pullquote]

Di Giulio Sapelli. Son vent’anni dalla nascita de L’Ulivo, e forse non è inutile fare il punto su quella che fu la sua politica economico-monetaria. Una politica che si inserisce nel grande percorso di trasformazione mondiale capitalistica ancora in corso, ma che iniziò ad apparire visibile esattamente negli anni di cui si parla in queste pagine, ossia alla metà degli anni novanta del Novecento.

È ormai diffusa la quasi stucchevole affermazione per cui dalla crisi economica mondiale in corso stia emergendo una nuova formazione economico-sociale capitalista. In questo in verità non vi è nulla di nuovo, gli andamenti delle forze produttive sono sempre intimamente legati alle forme della produzione e quindi ai rapporti sociali e istituzionali. Anzi, molto spesso nella storia capitalistica questi ultimi hanno avuto un ruolo determinante nel pre-formare le stesse forze produttive, che ben poco hanno di meccanico e deterministico.

Il sismografo più sensibile e rilevante che segnala i mutamenti tra forme dell’accumulazione e rapporti sociali di produzione è il lavoro. Parlo naturalmente del lavoro vivo, incorporato in quel reticolo di rapporti contrattuali che rinserrano la forza di lavoro, ossia quella parte del tempo di lavoro che configura il rapporto capitalistico. In esso, vivaddio, a essere venduto o sottoposto al lavoro comandato, non è tutto il lavoro della persona lavoratrice, come è nei rapporti di schiavitù, ma solo il tempo durante il quale la persona è sottoposta ai rapporti sociali di lavoro. Per capire cosa è cambiato in questi ultimi, bisogna risalire non alla crisi in corso ma alle sue origini.

Si tratta di vari fenomeni solo apparentemente distinti ma l’un con l’altro legati. L’uno risale al crollo del sistema di Bretton Woods tra il 1971 e il 1973, quando il dollaro smise di essere moneta di riferimento e ci si avventurò in un sistema mondiale di alti tassi di interesse e di profonda volatilità dei rapporti tra le valute. L’eccesso di liquidità che si creò, grazie all’intensificazione dei rapporti oligopolistici sul fronte del commercio mondiale delle materie prime, generò un profondo spostamento tra valore della produzione e del pluslavoro che ne derivava e valore della circolazione monetaria che iniziò a valorizzarsi a tassi molto più forti di crescita di quanto non fosse in passato di per se stessa e con se stessa.

La circolarità denaro-merce-denaro, dove il denaro finale era naturalmente superiore a quello iniziale realizzandosi nella produzione come plusvalore, non era più solo. Al suo fianco il denaro diveniva merce di se stesso attraverso una grande trasformazione dei meccanismi e delle regole di scambio (derivati, et similia, scambiati in shadow banks e in shadow pools) per creare ulteriori masse di denaro da valorizzare a loro volta. Contestualmente il managerial capitalism, dove la proprietà era divisa dal controllo e il manager dominava l‘azionista, veniva via via sostituito dall’owner capitalism dove nominalmente l’ azionista domina il manager, mentre in effetti è quest’ultimo a dominare l’ azionista stesso, come dimostrano le stock options e le vertiginose ascese di stipendi variabili dei top-manager.

Mentre si celebra lo shareholder value si consolida invece il predominio dei manager superpagati secondo algoritmi sconosciuti tanto agli azionisti quanto ai capitalisti. Che cosa c’entra questo con il lavoro? C’entra, eccome. L’inizio di questa intersezione tra owner capitalism, dominato dai manager stockoptionisti, e lo sviluppo delle forze produttive ha la sua acme nel lungo ciclo ininterrotto di crescita dell’economia statunitense, ciclo che dura dalla fine degli anni ottanta fino alla prima metà del primo decennio del secondo millennio. Alla base di questo lungo ciclo, in cui pareva che il capitalismo non avesse più crisi, stava l’intersezione dell’owner capitalism con l’Information Technology and Communication (ITC), ossia con quel nuovo ciclo Kondatrieff, di grappoli di innovazione nel campo delle telecomunicazioni, della valorizzazione sul piano spaziale dell’elettro magnetismo e insieme della miniaturizzazione tipica delle terre rare. La produttività del lavoro crebbe a dismisura. Questo per due fattori: il primo fu l’abbassamento dei costi di transazione: tempo e spazio tendevano ai costi zero. Il secondo elemento fu l’aumento della produttività del lavoro che non a caso avvenne nei sistemi sociali in grado di sviluppare quote crescenti di plusvalore contestualmente alla creazione di enormi masse di domanda interna. La domanda estera, non quella interna, pareva diventare l’elemento essenziale, non solo nei mercati dove questo processo ebbe inizio, in primis il mondo anglosassone a common law, ma anche in misura minore l’Europa continentale a sistema giuridico romano-germanico. I mercati dovevano essere creati in quelli che un tempo si chiamavano paesi in via di sviluppo e che ora si chiamano BRICS.

Naturalmente, come oggi sappiamo, questi mercati che generarono l’illusione che tutte le economie cosiddette avanzate potessero essere fondate su modelli export-lead, non si svilupparono come previsto.

Ma questo era ed è il dogma principale dell’ordoliberalismus unitamente all’ assenza di debito pubblico e alla scrittura nelle costituzioni dei principi liberisti…che è quanto di più illiberale possa esistere, ma è questo il dogma della politica fondata sull’euro. E fu proprio questa errata previsione il principio di riferimento della politica monetaria dell’ Ulivo a trazione europeo-teutonica. E così inizia, nascostamente dapprima, una gigantesca crisi di sovraccapacità produttiva. La prova di ciò non risiede tanto e soltanto negli enormi stoccaggi di merci invendute, ma soprattutto nella colossale riduzione della forza lavoro occupata su scala mondiale e soprattutto in quelle grandi corporation che erano state all’origine del lungo ciclo della new economy e della diffusione dell’ITC. Naturalmente da circa trent’anni, non a caso, la dimensione media su scala mondiale si va riducendo e questo per la crescente produttività del lavoro creata non grazie alla lunghezza del tempo di lavoro, ma all’intensificazione della produttività tecnologica tutta labour-saving.

La creazione del cosiddetto nuovo proletariato asiatico che è una realtà, beninteso, che coinvolge centinaia di milioni di nuovi proletari, non deve trarre in inganno. Si tratta di un fenomeno temporaneo, ossia non durerà più di un cinquantennio, ossia il battito di un ciglio nella storia. E questo perché questo nuovo proletariato sarà prestissimo investito, lo è già, della legge gerschenkroniana del vantaggio dell’ arretratezza, ossia del fatto che in India, in Cina, in Malesia, In Birmania, a Singapore, in Perù, etc, non si passano tutte le fasi della crescita tecnologica, ma si saltano tali fasi e ci si aggrappa, nella produzione di plusvalore, all’ultima disponibile.

Questo non significa che non esistano ancora immense sacche di plusvalore relativo, ossia creato non dalla tecnologia ma dalla durata della giornata di lavoro e dai bassi salari. Fenomeno che accompagna sempre l’accumulazione capitalistica e che riappare oggi, sfatando ogni determinismo tecnologico, proprio nel vecchio continente, sotto il tallone dell’ordo-liberalismo teutonico che risponde alla caduta del tasso di profitto con l’abbassamento dei salari e con la deflazione, generando sempre in tal modo nuove crisi da sottoconsumo come sono oggi quelle in corso in Europa.

Tale ordoliberalismus nasce con L’Ulivo: per questo val la pena parlare di questo fenomeno politico dal nome vegetale.  Che ruolo ha avuto la finanza sregolata ordoliberista in questo interessante panorama analitico e di grande sofferenza sociale? Essa non è più divenuta una variante della classica produzione di plusvalore derivante dall’ acquisizione del pluslavoro grazie al lavoro comandato, così come lo descriveva Ricardo. È divenuta qualcosa di più. È’ divenuta lo strumento che maschera la caduta tendenziale del saggio di profitto generata dalla crescente disoccupazione, quindi dal crollo del lavoro vivo e altresì dalla crescente crisi di sovraproduzione che genera la non solvibilità della domanda. La finanza serve a prendere tempo, ossia il processo che prima ho evocato, ha trasformato tutte le imprese in grado di generare masse rilevanti di cash flow in imprese di nuovo tipo che creano, accanto al valore generato dalla produzione, un valore generato dalla finanziarizzazione grazie all’estensione della circolazione del denaro contro denaro e soprattutto attraverso la gestione dell’indebitamento che si spinge sino al punto di vendere debito per il debito, con altissimi tassi di rischio.

Naturalmente questo processo ha investito nei sistemi banco-centrici europei anche le banche e nei sistemi non banco-centrici,come quelli anglosassoni, tutte le istituzioni non dirette all’erogazione dei crediti ma alla creazione di valore di denaro dal denaro, come fondi di investimento et similia. Di tutto questo ci siamo accorti solo nel 2007, con la crisi da eccesso di rischio che generò il crollo di Lehman Brothers.Lo stato, tutti gli stati mondiali, avevano accompagnato questo processo, lo avevano sostenuto con le deregolamentazioni alla Clinton e alla Blair e avevano diffuso la certezza, così come era stato nella grande crisi delle casse di risparmio nordamericane alla fine degli anni Ottanta del Novecento, che lo stato sarebbe intervenuto per salvare il salvabile. A quel tempo, nel 2007, ciò non avvenne. In verità si trattò di un non salvataggio dettato più dal timore e dall’inesperienza tecnica perché, come sappiamo, dopo di allora, lo stato, o con le nazionalizzazioni delle banche o con i finanziamenti delle industrie con prestiti ad alto rischio (vedi Obama e l’industria automobilistica americana) interviene, vedasi il ruolo crescente delle banche centrali con politiche neokeynesiane per arginare la disgregazione sociale.

Lo stato è sempre intervenuto, cosicchè si potrebbe veramente parlare a livello mondiale dell’ascesa di una nuova forma di capitalismo monopolistico di stato che cerca, con i suoi interventi, di far fronte sia alla crisi industriale e alla disoccupazione, che ne deriva, sia all’eccesso di rischio. Ciò che si contrappone all’ascesa di questo nuovo capitalismo monopolistico di stato, a dominazione finanziaria, è l’ordo-liberalismus teutonico-nordico che ha dietro di sé una lunga tradizione intellettuale e che con l’unificazione della nazione tedesca, negli anni Novanta, ha profondamente cambiato l’equilibrio di potenza in Europa.

L’ordo-liberalismus ha tutte le caratteristiche sopra descritte del capitalismo finanziarizzato ma se ne differenzia perché al sistema di libera concorrenza ha sostituito in effetti il sistema di potenza: impone bassi salari, abbassamento della spesa pubblica, distruzione dell’ welfare a tutti gli altri stati europei che non possono seguire il suo modello export-lead con la stessa intensità, mentre garantisce pluralità delle forme di allocazione dei diritti di proprietà e ruolo dello stato al suo interno, stato che sostituisce il principio di sussidiarietà quando esso fallisce, ruolo che invece vieta a tutti gli altri stati europei. Fa questo attraverso il controllo delle istituzioni europee prive di legittimazione popolare, con una fermezza e una continuità impressionante, come ci dimostra la deflazione europea in corso. Ciò nonostante il meccanismo di consustanzializzazione della finanza nella produzione si è pienamente inverato anche in Europa, e quindi gli effetti sul lavoro sono assai simili a quelli prima descritti a livello mondiale. Ossia: disoccupazione di massa per restringimento della base produttiva, abbassamento dei redditi per diminuzione della massa salariale, crisi crescente delle piccole unità produttive che non possono generare la finanziarizzazione prima descritta, che serve a prendere tempo rispetto alla caduta del tasso di profitto grazie al valore creato dalla circolazione del denaro che produce denaro e/o dalla vendita del debito su debito grazie alla leva ad altissimo rischio.

Ecco allora giungere come aveva previsto Hansen nel 1939, la deflazione che conduce alla stagnazione secolare: trappola di liquidità, sindrome giapponese: tutte malattie che nascono nell’Europa dell’euro ordoliberista. C’è di più, tuttavia. La finanza si incontra con nuove tecnologie che cent’anni fa non avevamo previsto. Schumpeter parlava di distruzione creatrice: nuove tecnologie, nuove imprese avrebbero distrutto le tecnologie e le imprese incapaci di adattarsi ai nuovi cambiamenti, e dalla crisi si sarebbe creato nuovo plusvalore generato dalla espropriazione del pluslavoro attraverso la riproduzione allargata del meccanismo del capitalismo. Si distruggeva ma si creava. E non solo variando i tassi di interesse, come aveva in mente Keynes, ma facendo circolare merce contro merce come aveva in mente Piero Sraffa, nel suo Produzione di merci per mezzi di merci, che rimane il più bel libro di economia del Novecento. Ora le cose sembrano cambiare. Perché il nuovo ciclo Kondratieff che si avvicina come uno tsunami ha talune caratteristiche prima sconosciute. Pone all’odine del giorno la creazione diffusa di sistemi naturalmente complessi e stratificati quanto a tecnologie di intelligenze artificiali che producono a loro volta intelligenze. È come se si elevasse l’ITC all’ennesima potenza. Le stampanti 3D, con la meccanica per diffusione e non per estrusione che ne deriva grazie all’uso del laser, sono solo l’inizio. Il seguito saranno i robot isomorfi, omeostatici tanto con il corpo umano quanto con il mutare delle macchine e dell’ambiente in cui sono immersi.

Tutto questo è avvenuto in Europa grazie alla politica economico-monetaria dell’Ulivo che ha disarmato le menti e nel mentre ha armato nuove classi economico-politiche cosmopolitem(i Padoa Schioppa ne sono l’ esempio più sconcertante, a cominciare dai Ciampi e dai Draghi e per finire con i Monti costruiti dai quotidiani e dai poteri situazionali di fatto filo teutonici e anti USA,che già Gramsci aveva ben descritto, seguendo Machiavelli e parlando del “cosmopolitismo” ossia del servilismo internazionale degli intellettuali italiani. Immaginiamoci che cosa accade quando al posto di intellettuali ci troviamo dinanzi ragionieri del mondo affascinati dal mito umiliante che narra che gli italiani nulla san far da sé e hanno quindi bisogno per bene agire di choc esterni: l’ordoliberalismus teutonico appunto: mito che in qualsivoglia altra nazione farebbe sfidare a duello colui che accusa il suo interlocutore di sostenere tale tesi.

Si dovrà fare la storia dell’Ulivo che ne affronti la teoria economica prevalente. I testi di Lodovico Festa (anche l’ ultimo apparso su “Studi cattolici” recentissimamente) offrono di già una eccellente premessa.  Ma certamente la politica monetaria di quegli anni va inserita nella specificità della vicenda monetaria italiana che è sempre stata -come sappiamo- determinata da una oscillazione e da un intreccio continuo tra fiscal dominance e foreign dominance.

Sgombriamo subito il campo dal presupposto ipostatizzato mitologicamente che il problema centrale sia quello dell’indipendenza delle banche centrali. L’indipendenza delle banche centrali dal Tesoro (per dipendere da chi? se non dalle burocrazie o dalle euroburocrazie spartite in basi a criteri di potenza nazionale) non incide sui temi della foreign dominance come nei consolidati manuali Cencelli politici, e nel caso dell’Ulivo: non è determinante.

Ciò che è e fu determinante a partire dai tempi dell’Ulivo (sino a oggi) è il fatto che l’indipendenza delle banche centrali europee dell’eurozona e quindi dell’Italia, fu lo strumento più idoneo allorché si ritenne di potere e volere fare la volontà della nazione accettando, anzi, invocando, il dominio estero sulle nostre scelte di politica monetaria ed economica non in una condizione di condivisione ma, invece, di crescente sottrazione di sovranità.

La mia tesi è che l’ Ulivo ha rappresentato l’acme della foreign dominance e l’ha reso pressoché irreversibile – almeno nel breve periodo – con l’ entrata nell’euro e quindi con la definitiva perdita della sovranità monetaria. Ciò che è stata una delle fasi della foreign dominace, ossia l’egemonia tedesca sul sistema economico e su quello monetario in primis italiano grazie all’Europa a dominazione germanica, è ormai divenuta una delle caratteristiche della stessa nazione italiana.

Il nesso nazione-internazionalizzazione ha avuto una torsione e stabilizzazione definitiva, se l’Europa non muterà volto, ossia non si riscriverà il Trattato di Maastricht e non cadranno tutti i suoi presupposti. Essi hanno condannata alla decadenza l’Italia, come fu nella crisi del Seicento. I mezzi furono diversi, gli esiti saranno e già sono assai simili: de-industrializzazione, depauperamento del capitale umano con la sua emigrazione da un lato e la sua emasculazione emotiva dall’altro.

Come è noto, quando parliamo di fiscal dominance intendiamo il ruolo determinante del Tesoro nella creazione monetaria. Determinare la quantità di moneta e dei tassi d’interesse è un compito che rimane nelle mani della politica e delle istituzioni finanziarie: oppongono il principio di gerarchia a quello di mercato e allocano le risorse in questo sistematica prevalenza. In questo senso il ruolo del mercato è subalterno e sottoposto al controllo politico anche in un contesto internazionale che può renderlo difficile Ma questa è stata fondamentalmente la condizione in cui l’ Italia si è trovata a operare per la sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro durante tutta la sua storia sino ai primi anni novanta del Novecento Proprio gli anni in cui inizia l’ esperienza dell’Ulivo.

Naturalmente questa storia è stata contrassegnata da una diversità della foreign dominance anche in condizioni ben precedenti l’Ulivo e che ho richiamato precedentemente. Si possono scandire storicamente dei tempi ben precisi in cui tale foreign dominance assume colori diversi, dai tempi Camillo Cavour passando per il predominio inglese e francese e poi quello tedesco che fu decisivo per la creazione del sistema bancario italiano per inverare poi durante il fascismo paradossalmente il predomino nord americano con un ruolo decisivo esercitato dalla banca Morgan e dal suo rappresentante in Italia.

Tutto ciò continuò nel secondo dopoguerra sino all’ abbandono della politica di distacco da ogni ipotesi di sistema dei cambi fissi ben rappresentata dalla posizione di Paolo Baffi in merito alla non adesione allo SME per la ragione che il nostro sistema produttivo non avrebbe potuto resistere neppure a un’ anticipazione dei cambi fissi: figuriamoci a una moneta unica. L’adesione ci fu e dopo il crollo dell’URSS ci fu l’unificazione tedesca e la creazione dell’euro e quindi l’inveramento assoluto della foreign dominance che ora ci distrugge, con tutta l’Europa del Sud.

Il paradosso vero di tutta la vicenda è quello per cui i protagonisti della vicenda, i più filo euro e quindi i più responsabili dell’ordoliberalismus dilagante, furono le forze socialiste e cristiano sociali europee. Da questo punto di vista la creazione dell’ euro e l’adesione entusiasta di tutto l’ Ulivo alla politica ordoliberista è stata il trionfo della considerazione teorica che è possibile dedurre in casi di scelte monetarie assunte in questo caso non da singole nazioni ma da una burocrazia eurocratica dominate sui parlamenti nazionali che teneva e tiene sotto il suo controllo le nazioni. Ossia la considerazione che in presenza di creazione monetaria decisa dal mercato e quindi endogena, tali decisioni non sono mai libere, ma assunte nel contesto dell’equilibro di potenza internazionale che quei mercati costituisce.

Nel caso della BCE il paradosso è bellissimo e strabiliante: il Trattato di Maastricht affida alla BCE la scelta del regime di cambio, per esempio, mentre in effetti tutte le variabili che interagiscono nella circolazione monetaria internazionale sono determinate da sovrastrutture che superano le stesse prerogative sia dei governi nazionali sia della BCE: WTO, cross border currency e soprattutto, oggi in primis, derivati e tutti gli strumenti della finanza collateralizzata.

Il compito della BCE in effetti e lo dimostrano anche le politiche controverse come il quantatitive easing è stata ed è quella di ricercare di condizionare la creazione endogena di moneta ( e quindi dei mercati mondiali) indicando ripetutamente in quale modo si ritiene più opportuno affrontarla politicamente.

Ma la spaccatura dell’ Europa tra nazioni dominanti tedesco-vassallatiche da un alto e potenza francese emasculata dall’altro, ha provocato il collasso del sistema che pare abbandonato a se stesso, come dimostrano le ricorrenti crisi dell’euro sino a giungere alla crisi politica della minaccia della fuoriuscita dall’UE dell’unica grande potenza non dell’aerea euro, ossia il Regno Unito.

Dinanzi a tutto ciò l’ Ulivo non h mai saputo né comprendere né reagire. Anzi ha applaudito ed è salito sul carro dei distruttori dell’economia e della società europea, culturalmente e antropologicamente intesa. Sconcertante poi la politica comunista Basta leggere i discorsi di Giorgio Napolitano: ai tempi di Paolo Baffi, il quale come noto, da Governatore della Banca d’ Italia, era schierato contro lo SME e non seguiva le indicazioni del potere situazionale dominante. In seguito giungemmo ai tempi di Guido Carli (che è ancora la figura enigmatica di tutta la vicenda), che aderì all’euro seguendo la vulgata dello choc esterno necessario e inderogabile, tutti sorprendendo.

Giorgio Napolitano e con Lui i comunisti nella stragrande maggioranza, seguirono la “nuova” Banca d’Italia come i ciechi del famoso quadro metaforico: perplessi e infine europeisti ordoliberisti entusiasti e come tale premiati dai poteri situazionali di fatto allora dominati. Solo Luciano Barca spicca e spiccherà nella riflessione storiografica per la Sua intelligente e indipendente visone in continuità con l’ ispirazione di quella grande figura scientifica, umana, civile, che fu Paolo Baffi.

Dei socialisti è inutile dire alcunché perché si posero nella scia di Tony Blair, il vero distruttore del socialismo europeo, scambiando innovazione e modernità con subalternità alla mitologia capitalistico-finanziaria che dominava il mondo. È un segno positivo dei tempi che l’ attuale gruppo dirigente inglese laburista si sia deciso a fare i conti con quella (e questa ) sciagurata epoca. Ma dovremmo ora far storiografia e sociologia, insieme, di viltà personali e di battaglia delle idee, dove, come sempre, la moneta cattiva scaccia quella buona.

http://www.glistatigenerali.com/partiti-politici/cosi-ventanni-fa-lulivo-consegno-litalia-alla-dominazione-germanica/

La False Flag della tutela del consumatore tra ordoliberismo e TTIP

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1. Lo spunto per ri-attualizzare la questione, che troverete approfondita ne “La Costituzione nella palude”, lo fornisce questo recente commento di “Stopmonetaunica“:
“Se ho capito bene, quello che lei definisce consumismo senza senso è lo spostamento ordoliberista dai diritti del lavoro ai diritti del consumatore considerato come unico Dio. Se è questa la definizione che ne dà sono perfettamente d’accordo; è chiaro che i due diritti si trovano sovente in conflitto; banalmente: il consumatore vuole pagare di meno una merce, il lavoratore vuole essere pagato di più; la deflazione salariale adesso fa sì che sia anche una scelta obbligata da parte del consumatore il pagare meno le merci e nel contempo chiedere tutte le garanzie che queste merci siano prodotte con standard qualitativi alti; è quindi un circolo vizioso, un feedback negativo, che porta alla catastrofe sociale…”
2. Due piccole precisazioni: “consumismo senza senso” è una (felice) definizione non mia, ma di Rawls.
La “catastrofe sociale”, in realtà, dipende da quale osservatore di consideri. Un neo-liberista, cioè in particolare un ordoliberista, vedrebbe tale schema come un virtuoso ripristino non solo del magico sistema dei prezzi, ma anche delle indispensabili gerarchie (di fatto), che devono governare la società come “Legge” superiore alla “legislazione” degli “inutili” parlamenti (quando non siano espressione del sondaggismo controllato dagli “operatori economici razionali”).
 
Detto questo, il commento sintetizza correttamente il meccanismo già illustrato qui.
Ma vale la pena peraltro di sviluppare ulteriormente l’argomento
Il motivo è che, quando l’ordoliberismo è culturalmente radicato, come in €uropa, e in particolare in Germania, dove tutela del consumatore e ambientalismo decrescista sono di casa, le cose vanno poi così, quando si tratta di opporsi al TTIP…per le ragioni sbagliate (anche mettendo la questione “lavoro” nel mucchio delle altre):
Berlino, 250mila persone in corteo contro il Ttip. Paura per ogm, qualità della tutela ambientale e del lavoro
BERLINO
3. Ma diciamo sbagliate non in sè (nessuno, giustamente, vuole alimenti ad effetti dannosi per ecosistema e fisiologia umana), quanto perchè, presi da un dilagante condizionamento mediatico-culturale, si combatte l’effetto: cioè, il connaturale abbassamento degli standards di tutela dell’interesse pubblico in situazione di intensificato  liberoscambismo, essendo la teoria dei vantaggi comparati (cioè la giustificazione del free-trade) tanto più valida quanto più è limitato il ruolo dello Stato, possibilmente “minimo”.
Dunque, ragioni sbagliate perchè, opponendosi esclusivamente in base ad esse, si impedisce all’opinione di massa di scorgere la cause e quindi la creazione di una resistenza al TTIP realmente capace di segnalare, alla politica €uropea, il temuto costo di un ampio dissenso (elettorale) che verta sulla “vera posta in gioco” con il TTIP. Vale a dire, i rimasugli dello Stato sociale (sopravvissuti all’euro e alle sue esigenze di conservazione ad ogni costo) e dei servizi di pubblico interesse essenziale non privatizzati, ma da privatizzare in accelerazione.

4. Ecco dunque una espansa illustrazione di come agisce (sull’assetto socio-economico e istituzionale), l’enfasi monopolizzatrice della tutela del consumatore.

La premessa empirica è certo quella già sopra detta: il consumatore ha interesse a pagare meno e a ricevere un bene di effettiva qualità (migliore di “prima”, migliore di quella promessa da una diversa impresa del settore di mercato, comunque di qualità effettivamente corrispondente a quella “promossa” sul mercato). L’impresa ha interesse ad abbassare i costi per potersi garantire la quota di mercato al prezzo più basso offribile e/o con l’esclusiva di certe qualità distintive.
Il modo più diretto e logico di realizzare ciò è l’abbassamento dei costi: il più “facile” e consistente da abbattere è quello del lavoro. Ovviamente, “facile” a date certe condizioni istituzionali e politiche: che sono ben fornite dall’applicazione dei trattati europei, come dovremmo ormai ben sapere. Va peraltro notato che, in pratica, l’incidenza dei costi del management è non meno insidiosa, sulla formazione dei prezzi, perchè si è conquistata una rigidità notevole e una varietà di forme di compenso (diretto o indiretto) senza precedenti; o meglio si è guadagnata, oggi più che mai, un’elasticità esclusivamente verso l’alto.
5. Notare: si tratta della stessa elasticità unidirezionale che viene considerata imperdonabile nel settore pubblico. E viene propugnata come imperdonabile proprio dagli stessi protagonisti di questa escalation dei compensi nel “privato”.
Si tratta di una lotta che vede dunque prevalere una “casta”, molto privata, a scapito del valore condiviso dell’interesse collettivo realizzato da ogni struttura pubblica: funzionale a questa prevalenza, ormai conclamata, è la questione della corruzione, invariabilmente proposta come fatto del solo corrotto, dimenticando la categoria del corruttore…privato. Ma questo è un altro versante del discorso, che merita approfondimento in altra apposita sede).
Dunque, questa rigidità (verso il basso) dei propri enormi compensi, la casta degli executives se l’è conquistata proprio per il “merito” della riduzione dei costi e della connessa garanzia dei profitti, estesa agli azionisti di controllo, e quindi a scapito del lavoro.
Questo schema, che muove dall’idea salvifica dell’interesse del consumatore, è dunque un’autogaranzia dei compensi al management di vertice: il paradigma “mercato-concorrenza su prezzo/”qualità distintive”-consumatore” è comunque premiante in modo selettivo verso il basso, cioè che riduce il “premio” via via che si scende nel livello dell’apporto lavorativo, e quindi in modo regressivo rispetto alla “forza lavoro”.
6. Ciò che più importa è che un’apparente attenzione verso la “massa” (dei consumatori), determina, sul piano degli interessi economici prevalenti, la coincidenza della posizione degli azionisti di controllo con la tendenza degli executives ad accrescere con qualunque mezzo i propri compensi: in pratica, nei fatti, il sistema viene realizzato attraverso le periodiche offensive di tagli del personale, (anche mediante “esternalizzazione” con riassunzione dei dipendenti presso imprese esterne create ad hoc, con contratti di lavoro meno costosi, o mediante la intensa precarizzazione contrattuale dei dipendenti stessi, talora licenziati e riassunti con formule di part-time e collaborazione autonoma etc.).
Tutte queste “tecniche” di gestione del costo del lavoro sono chiamate pomposamente “riorganizzazione“.
Dunque, l’enfasi sulla figura del consumatore (spostato strategicamente sul rapporto qualità/prezzo), crea la (nei fatti forzata) coincidenza tra la tutela del consumatore stesso, considerato ipocritamente come l’appartenente ad una categoria indifferenziata, con il prevalente interesse del management e della proprietà finanziaria.
7. Ma avuto riguardo alla caratteristica del consumatore di costituire una “massa”, si impone di distinguere ciò che è invece dissimulato in questo schema: le differenti posizioni economiche, cioè reddituali e di capacità di spesa, in cui si suddividono di fatto, inevitabilmente, i consumatori, appartenenti alla massa indistinta di cui si propugna la indifferenziata tutela.
I consumatori non sono affatto indifferenziati: proprio per effetto della condizione simultanea di appartenenti alla forza lavoro, sottoposta al sistema della “riorganizzazione” del personale, perdita di potere d’acquisto e perdita del posto di lavoro, colpiscono la gran parte dei consumatori.
In pratica, l’effetto ultimo e “massificato”, è di relegare la parte debole del contratto di lavoro alla condizione diutente, naturalmente anch’esso debole, del credito al consumo, governato dalle condizioni generali di contratto imposte dall’onnipossente sistema finanziario, ovvero alla condizione di morte sociale di “non-consumatore“, in quanto disoccupato o working-poor.
8. La tutela del consumatore finisce così per coprire il danno che, alla principale componente di tale massa, i lavoratori, viene inflitto in nome del “mercato”: per conquistare il mercato, per rimanere sul mercato, nella competizione di volta in volta considerata in un certo settore, la forza lavoro diviene per definizione sacrificabile, in un’illusoria contrapposizione tra la forza lavoro di “settore”, o di una singola impresa, e la massa volutamente indifferenziata dei consumatori.
Ma la massa è, nei numeri della collettività sociale, percentualmente composta in modo maggioritario dalla stessa forza lavoro; e tale componente, sociologicamente, include anche il lavoro autonomo, in forme nuove e antiche, nella sua parte che non può volgere a proprio vantaggio il potere di fissazione dei prezzi.
Questi, infatti, sono in concreto stabiliti dagli operatori che hanno “potere di mercato“, cioè in posizione di oligopolio e/o monopolio, spesso artificiosamente distinti ma nella realtà a stento distinguibili (nel comportamento sul mercato e sul controllo dei costi).
9. L’evidente conseguenza di questa imposizione ideologica e, nell’ambito della costruzione europea, anche normativa, è che la tutela del consumatore, diviene una fortissima spinta alla giustificazione (dissimulata) del tipo di mercato del lavoro che consente l’operazione di bandiera, continua, di tutela del consumatore attraverso la (presunta e illimitata) competizione sui prezzi: quel tipo di mercato del lavoro-merce, o lavoro-costo, che consente di rifissare i prezzi, e rimodulare l’offerta di beni e servizi, essenzialmente in funzione riduttiva della quantità (disoccupazione+precarizzazione) e della remunerazione (salari reali) del fattore lavoro.
10. Sul piano morale, e politico (nel senso di ideologico generale), ciò consente la settorializzazione e la frammentazione della tutela del lavoratore, che diviene sacrificabile alla luce del “generico” interesse superiore del consumatore, nascondendo gli effetti reali del mercato del lavoro che così viene affermato come scelta eticamente ineludibile (There is no alternative: TINA).
Le ragioni della classe dirigente economica privata, assurgono così a priorità incontestabile proprio con il coinvolgimento di chi ne viene danneggiato nei suoi interessi, cioè i consumatori nella loro prevalente realtà sociologica: solo che tale interesse del vertice sociale privato scompare – in una frammentazione settoriale che indebolisce il lavoro fino a renderlo irrilevante-, nella stessa percezione dell’opinione di massa. E questo, grazie alla categoria artificiosa del mercato in “libera concorrenza” (che nasconde gli oligopoli transnazionali) e a quella del consumatore come suo (artificioso) principale beneficiario.