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Brexit, ex governatore della Banca d’Inghilterra King: “Londra sia pronta a uscire dall’Ue anche senza accordo”

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Articolo tratto da IL FATTO QUOTIDIANO del 9 aprile 2017

Per l’ex banchiere centrale uscire dall’euro “è una decisione politica: dipende quanta disoccupazione la gente è disposta ad accettare e per quanto tempo. Ma se continuiamo così ci sarà presto un’altra crisi come quella del 2010 e 2011”

A 69 anni Mervyn King, che ha guidato la Banca d’Inghilterra dal 2003 al 2013, attraverso la crisi finanziaria, è libero di rimettere in discussione le fondamenta stesse dell’economia. Come nel libro La fine dell’alchimia – il futuro dell’economia globale, che esce ora in Italia per il Saggiatore.

Professor King, la premier Theresa May ha avviato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Alla fine ci sarà un buon accordo per gli inglesi?
Non lo sappiamo. Il tema principale del libro è che governi e banche hanno fatto l’errore di pensare di poter predire il futuro mentre dobbiamo rassegnarci a una incertezza radicale. Nessuno, 10 anni fa, poteva immaginare che il tema della Brexit avrebbe dominato l’agenda, così come nel resto d’Europa nessuno si aspettava che la libertà di movimento delle persone sarebbe stata messa in crisi da una migrazione di massa verso l’Ue. Non sappiamo come i negoziati procederanno. Molti dei soggetti coinvolti hanno una loro agenda personale e quindi potrebbe non essere saggio presupporre che tutti, collettivamente, si comporteranno in modo razionale.

E quindi?
La Gran Bretagna deve essere pronta a uscire dall’Unione anche senza aver raggiunto alcun accordo. Ma non credo che sia un problema drammatico, potremo comunque commerciare con il resto dei Paesi dell’Ue sulla base delle regole del Wto. E nei confronti di Usa e Cina saremmo alla pari con l’Ue, visto che non esistono accordi commerciali europei con loro. Se diventa chiaro al resto dell’Europa che siamo pronti ad andarcene anche senza accordi, tutti capiranno che è interesse comune avere almeno un’intesa sul commercio di prodotti industriali.

E’ il dilemma del prigioniero: chi farà la prima mossa?
Esatto, dobbiamo prepararci a due anni di grande confusione, con politici e giornali che annunceranno spesso l’imminente collasso del negoziato. Ma su entrambi i fronti penso ci sia una certa determinazione ad avere almeno un accordo sul commercio. Ma ciascuna delle due parti deve avere ben chiaro quali sono i paletti dell’altra: la Gran Bretagna non è disposta a rendere la propria politica di immigrazione parte del negoziato, e la minaccia da parte europea di ricorsi alla Corte di Giustizia non è reale perché dopo la Brexit non avrà più autorità.

E se Londra esce senza accordo non avrà pesanti ricadute economiche, visto che da un giorno all’altro verrà disapplicata tutta la normativa di origina europea?
Dovremo fare un po’ più di formalità alla dogana, qualche modulo aggiuntivo. Ma nessun dramma. La Francia non ha alcun accordo doganale o di libero scambio con gli Usa, eppure mi sembra che riescano bene a commerciare. E all’aeroporto adatteremo le macchine per lo scan dei passaporti a leggere anche quelli europei. Fra 50 anni chi guarderà l’andamento del Pil inglese negli ultimi decenni, non sarà in grado di capire dalla curva il momento della Brexit.

Ma è stata una scelta razionale o emotiva quella degli inglesi al referendum del 23 giugno?
E’ stata la peggiore campagna politica della mia vita. Nessuno dei due campi era disposto a concedere qualcosa all’altro, ma entrambi avevano molti argomenti razionali. Il governo ha  fatto un terribile errore a esagerare le conseguenze del leave e sostenere che ogni famiglia avrebbe perso 4300 sterline. Come potevano saperlo? Nessuno era in grado di prevederlo, è un salto nell’ignoto. Non possiamo neanche sapere come sarà l’Ue tra 4-5 anni, potrebbe anche assomigliare molto al tipo di Ue che andrebbe bene agli inglesi. Ma potrebbe anche evolversi verso l’unione politica, e allora sarebbe stato razionale per la Gran Bretagna andarsene prima.

Come si spiega questo aumento di ostilità verso l’Europa da parte degli inglesi?
I politici hanno sempre sostenuto che non avremmo perso sovranità unendoci all’Ue e questo si è rivelato completamente falso. Avrebbero dovuto dire che in alcune aree condividevamo sovranità perché questo era nel nostro interesse nazionale. Negare la questione quando il 60 per cento di tutta la legislazione è europeo e quando la legge europea vale come precedente nel diritto inglese, è assurdo. La gente si chiede: se siamo la quinta economia del mondo, perché il nostro Parlamento non può fare da solo le sue leggi? Il governo ha sostenuto per anni che avrebbe controllato l’immigrazione, ma non è successo. La società è cambiata in una direzione che i politici avevano escluso, per questo le persone hanno perso fiducia.

Non crede che condividere sovranità sia talvolta il modo di preservarla? Gestire l’immigrazione da soli, per esempio, non sembra fattibile.
Quando è stata introdotta la libertà di movimento sembrava un’ottima idea. Potevi trasferirti e vivere in un altro Paese e continuare a svolgere la tua professione di dottore o di professore. Ma nessuno aveva immaginato il problema che stiamo affrontando ora: migrazioni su larga scala da Africa, Medio Oriente e Asia. L’idea originale della libertà di movimento era tra Francia e Germania e Italia o Gran Bretagna, nessuno pensava a migranti con altre lingue, culture, o al terrorismo islamico.

E’ sensato cercare di riappropriarsi della sovranità sulla moneta per i Paesi dell’Eurozona?
Sul commercio è sensato condividere la sovranità, anche se i governi non sono mai stati molto bravi a spiegarlo perché si muovevano con una logica politica e non economica. La Gran Bretagna non ha mai condiviso la logica politica dell’integrazione – “ever closer union” – ma è sempre stata consapevole dei benefici che derivano dal libero commercio, con un convergenza su standard tecnici, qualità ecc. E’ molto meno chiaro se la condivisione di sovranità può portare gli stessi benefici con una unione monetaria, che probabilmente è stata prematura. Il mio libro spiega che è stata una enorme scommessa: non c’era convergenza nelle aspettative di inflazione quando, nel 1999, si è deciso di fissare lo stesso tasso di interesse in tutti i Paesi dell’eurozona.

Con quali conseguenze?
L’aggiustamento del tasso di interesse reale, cioè tasso di interesse meno inflazione o aspettative di inflazione, è stato troppo lento in Paesi come Spagna e Italia e troppo alto in Germania o Olanda. L’economia è cresciuta troppo in Italia e Spagna, con bolle immobiliari. E i Paesi alla periferia hanno perso competitività molto in fretta ed è difficile recuperarla: l’unico modo per ridurre i salari è stato creando disoccupazione e questo è quello che è successo. La disoccupazione in Spagna è incredibilmente alta, anche in Italia è tuttora sopra il 10 per cento. Mentre in Uk o Usa dove hanno la loro moneta, è sotto il cinque per cento. La domanda è se è il costo è politicamente sostenibile.

Quindi dobbiamo rischiare l’azzardo di uscire dall’euro?
E’ una decisione politica: dipende quanta disoccupazione la gente è disposta ad accettare e per quanto tempo. Ma se continuiamo così ci sarà presto un’altra crisi come quella del 2010 e 2011. Se un Paese lascerà l’euro non sarà piacevole, ma non sarà neppure un disastro: va confrontato con l’alternativa, e se è un altro decennio di bassa crescita e alta disoccupazione… Certo, ci sarebbe un periodo di caos, almeno in apparenza, ma nel giro di un paio di anni l’economia fuori dall’euro tornerebbe a crescere rapidamente.

Che soluzioni suggerisce?
I leader dovrebbero andarsene da qualche parte per un weekend, senza giornalisti e senza comunicati, e discutere sulle quattro opzioni che hanno davanti, di cui parlo nel libro: 1) continuare così con alta disoccupazione nei Paesi periferici in eterno 2) accettare l’inflazione in Germania 3) Germania e Olanda pagano per gli altri 4) rompere l’euro. Una combinazione di queste opzioni è inevitabile, continuare come se niente fosse è impossibile.

La Bce ha tenuto insieme l’euro e il sistema finanziario, applicando ricette politiche basate sulle idee che lei nel libro mette in discussione.
Non aveva altra scelta. Dopo aver creato la moneta unica si è scoperto che la convergenza auspicata non si è mai verificata, ma non è possibile ora ricominciare da capo, aggiustando con una svalutazione una tantum i tassi di cambio tra i vari Paesi e poi tornando nell’unione monetaria. E’ una possibilità ma molto rischiosa. Ma l’unica cosa che permette ai Paesi periferici di continuare a finanziarsi è avere bassa crescita e alta disoccupazione: importante così poco che non c’è alcun deficit delle partite correnti da finanziare. Ma se questi Paesi tornassero alla piena occupazione, si troverebbero con un deficit commerciale crescente senza avere alcuna possibilità di finanziarlo perché i mercati non avrebbero alcun incentivo a finanziare chi si trova ad aver bisogno costante di prestiti perché non ha la possibilità di aggiustare il tasso di cambio per compensare lo squilibrio.

L’Italia però continua a trovare finanziamenti, con bilanci in deficit, anche se continua ad accumulare debito.
Questo succede perché i mercati sanno che non stanno finanziando davvero voi, ma la Germania, la Bce e tutta l’Unione monetaria. E questo è un problema: c’è un’incoerenza tra questo tipo di aspettative e quelle dominanti in Germania.

Il tasso di interesse reale per i tedeschi è troppo basso e questo gonfia la loro competitività, generando enormi surplus commerciali. Ma avranno uno shock quando dovranno prendere atto che nessuno può ripagare loro i soldi investiti all’estero. Non riavranno mai i loro soldi e a un certo punto dovranno svalutare questo “attivo”. Prima o poi capiranno che non sono così ricchi come credono e che non hanno grandi vantaggi da essere così competitivi. E a un certo punto il tasso di interesse reale dovrà salire, o perché escono dall’euro, o perché arriva l’inflazione in Germania, o perché un altro Paese diventa più competitivo. Nel lungo periodo, la loro posizione è insostenibile.

Keynes, Draghi e i tassi negativi

[pullquote]…..Il valore si crea lavorando, l’euro impone la disoccupazione come risposta alle crisi, l’euro distrugge valore, e quindi i creditori in euro non devono lamentarsi……[/pullquote]

Come forse starete vedendo, sui media di regime è tutta una scoperta dell’acqua calda. Il Sole 24 Ore, il Corriere, la Stampa, scoprono quello che qui da sempre ci siamo detti: che il surplus tedesco più che dimostrazione di virtù è causa di problemi; che il debito privato, non quello pubblico, è origine della crisi; che curare il debito pubblico con l’austerity trasforma una situazione fisiologica in una patologica. Insomma: tutto quello da cui siamo partiti, parola per parola, viene oggi dato come assodato, come “mainstream”, da persone che spesse volte ci hanno denigrato, singolarmente o collettivamente, per averlo detto quando c’era ancora qualcosa da salvare.

Naturalmente nessuno è disposto a fare per primo l’ultimo passo, vale a dire che siccome solo la crescita potrebbe risolvere i nostri problemi, e siccome l’euro è nemico della crescita, perché la svalutazione interna (taglio dei salari) imposta dalla rigidità del cambio condanna alla deflazione, condizione necessaria per uscire dall’impasse è superare il sogno di una moneta imperiale ed evolvere verso un sistema monetario più flessibile.

Faranno questo ultimo passo quando sarà loro chiesto di farlo.

Noi, intanto, possiamo guardare avanti.

Per rendervi più agevole questo compito, e aiutarvi a perdonare chi con le sue menzogne ha distrutto un paese, vorrei oggi con voi allargare le prospettive, facendovi leggere qui quello che fra un anno leggerete sul Financial Times.

Avrete visto le polemiche fra un certo establishment tedesco e Draghi, accusato di fare politiche troppo espansive, di praticare tassi di interessi troppo bassi. Certo, al creditore tedesco i tassi di interesse troppo bassi danno fastidio, anzi, fanno paura, e questo per due motivi. Il primo è che tassi nulli o negativi compromettono la redditività del sistema bancario. Se le banche devono pagare la Bce quando depositano presso di essa liquidità in eccesso, e al contempo devono pagare i propri clienti affinché questi accettino prestiti (cioè si indebitino), capite bene che fare il banchiere non conviene più molto. Il secondo è che il sistema previdenziale tedesco ha un secondo pilastro basato sulla capitalizzazione. Con tassi di interesse bassi, se non negativi, i fondi non sono in grado di assicurare le prestazioni promesse ai risparmiatori/pensionati. Questa cosa, in un paese dalla demografia non florida, rischia di essere devastante, e, come qui sappiamo da tempo, a livello di istituzioni europee (cioè tedesche) la consapevolezza di queste dinamiche è piena.

Draghi ha risposto una cosa molto giusta: i tassi di interesse sono bassi perché non c’è crescita e la produttività langue. Tradotto: se non crei valore, non puoi distribuirlo né come reddito da lavoro, né come reddito da capitale (interessi). Naturalmente Draghi omette un passaggio, anzi due: il primo è che il valore non si riesce più a crearlo perché con cambi intraeuropei rigidi a una situazione di crisi non si può rispondere che creando disoccupazione (se le imprese del Sud non abbassano i prezzi chiudono, ma per abbassare i prezzi devono tagliare il “costo del lavoro”, e per convincere i lavoratori ad accettare questo passaggio normalmente occorre licenziarne un po’: motivo per il quale ovunque si fanno riforme che precarizzano il lavoro). Il valore si crea lavorando, l’euro impone la disoccupazione come risposta alle crisi, l’euro distrugge valore, e quindi i creditori in euro non devono lamentarsi.

Tanto più che (e questo è il secondo passaggio) le élite tedesche questo sistema lo hanno voluto nel loro interesse, e proprio per tutelare il valore del loro risparmio. La rigidità del cambio intraeuropeo aveva diverse dimensioni (da quella simbolica a quella commerciale a quella politica), ma la più importante era certamente la dimensione finanziaria: il cambio fisso serviva a rendere “credibili” i paesi del Sud, cioè a evitare che in caso di crisi la loro valuta fisiologicamente cedesse, ledendo l’interesse dei creditori. Insomma: il cambio rigido verso il Sud, e sottovalutato per il Nord, è servito al Nord non solo ad accumulare crediti verso il Sud, ma anche e soprattutto a difenderne il valore. L’euro non solo ha causato, come ormai è evidente, gli squilibri intraeuropei, ma è servito anche e soprattutto a difendere la posizione patrimoniale di chi ne aveva beneficiato, il quale ora, però, dato che il gioco si è spinto troppo in là, comincia a patirne anche lui le conseguenze.

Vedete, qui il discorso merita di essere ampliato un po’. Quando si parla di “leggi” economiche lo si fa (o lo si dovrebbe fare) con la consapevolezza che l’economia è una scienza sociale, non una scienza naturale. La legge di gravità non ammette eccezioni ed agisce in modo piuttosto cogente: se all’aereo che mi trasporta si stacca un’ala, è certo che voi questo post non lo leggerete. L’energia potenziale si trasforma in energia cinetica appena le viene consentito di farlo, portando un corpo verso una nuova situazione di equilibrio, mentre gli equilibri economici, come ad esempio quello negli scambi fra paesi, possono essere alterati a lungo da decisioni politiche, che possono trovare consenso, nonostante siano contro la “natura” economica, per diversi e complessi motivi sociali, culturali, antropologici. Solo che poi, alla fine, la razionalità individuale fatalmente deve sottostare alle regolarità empiriche collettive, che immancabilmente frustrano i tentativi individuali di violentare la natura economica.

Vi ricordate la proposta di Keynes a Bretton Woods?

Era una proposta molto razionale: i paesi creditori (cioè detentori di posizioni nette sull’estero positive) avrebbero dovuto pagare, anziché percepire, un interesse sui propri crediti. Una proposta che, come vi ho spiegato in due libri e innumerevoli post, e come meglio di me hanno chiarito Fantacci e Amato, aveva una razionalità economica intrinseca. Lo scambio avviene nell’interesse delle due parti. Il paese esportatore trae beneficio dal fatto che il paese importatore acquisti, e quindi nel momento in cui finanzia quest’ultimo non fa un favore solo a lui: fa un favore anche a se stesso. Dato che la finanza internazionale fa comodo a entrambi, è giusto che entrambi la paghino. Non solo: tesaurizzando i propri crediti internazionali per percepire su di essi un interesse positivo, il paese esportatore esporta anche disoccupazione e deflazione (Draghi rimprovera anche questo ai tedeschi: se il denaro costa poco, dice lui, è perché la Germania risparmia troppo). Se il creditore internazionale pagasse un interesse negativo sui suoi crediti, sarebbe invogliato a spenderli per l’acquisto di merci altrui, favorendo un riequilibrio degli scambi esteri. In tal modo, promuoverebbe la crescita dei paesi più deboli.

Una finanza più equilibrata per un mondo più equilibrato richiede una simmetrica penalizzazione degli squilibri finanziari internazionali.

Questa idea così semplice, purtroppo, non fa comodo a chi sa di essere destinato al ruolo di esportatore, cioè di creditore, il quale quindi naturalmente si oppone. Al tempo di Bretton Woods gli Stati Uniti si opposero alla proposta di Keynes, e oggi, qui da noi, la Germania si oppone a spendere il suo surplus per rianimare il circuito economico europeo.

Vedete però il paradosso? Alla fine l’economia si vendica.

I creditori esteri si sono rifiutati di costruire un sistema in cui, per prevenire gli squilibri, fosse loro chiesto di pagare un tasso di interesse negativo, e ora, a valle della creazione di enormi squilibri, la situazione qual è? Ma semplicemente quella che i creditori hanno disperatamente cercato di evitare: si ritrovano a percepire tassi di interesse nulli o negativi sul loro “tessssoro”. La ZIRP (zero interest rate policy) è l’unica possibilità per tenere insieme un sistema nel quale si sono accumulati squilibri finanziari enormi. Se la si abbandonasse, le posizioni debitorie a fronte del “tesssssoro” diventerebbero insostenibili, e i simpatici Gollum transalpini si troverebbero comunque con un pugno di mosche in mano. Loro se la prendono con Draghi, ma, oggettivamente, Draghi non può fare altro (se non andarsene, cosa che legittimamente non vuole fare).

Spettacolare, no? Keynes, cacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra!

Rientrato, ma, aggiungo, non in ottima forma. La differenza fra quello che voleva lui e quello che si sta verificando dovrebbe essere chiara. Lui voleva che i paesi forti, penalizzati da un tasso di interesse negativo sui loro crediti, venissero incentivati a spendere nei paesi deboli. I tassi negativi odierni invece si applicano a tutti: ai forti e ai deboli. Alla fine quindi essi servono per lo più a incentivare i paesi (e in generale gli agenti economici) deboli ad assumere nuovi debiti per rilanciare l’economia. Stiamo trasformando l’Eurozona in un posto in cui la banca ti paga perché tu ti indebiti: è così che è nata la crisi dei subprimes (come saprete), ed è così che stiamo risolvendo la crisi europea. Se il pensionato tedesco si preoccupa non ha torto. Peccato che questo sia il sistema che la Bild gli ha insegnato ad appoggiare politicamente! Tu l’as voulu, Hans Maier…

Quanto sarebbe meglio evolvere verso un sistema monetario maggiormente flessibile, come del resto sta facendo il resto del mondo, e come chiede il chief economist del Fondo Monetario Internazionale? Certo, nelle condizioni attuali ci sarebbe qualche mal di pancia da gestire: chi per tanti anni ha beneficiato del sistema, sarà riluttante a pagare la sua parte del conto, sotto forma di svalutazione dei propri crediti esteri. Succede sempre così: l’economia, alla fine, penalizza chi si è indebitamente avvantaggiato. Ricordate i mutui in ECU? Costavano poco, i tassi erano bassi, la rata era stabile perché eravamo agganciati allo SME… Ma quell’aggancio, che faceva bene al debitore, faceva male ad altri: le imprese esportatrici, ad esempio. Il debitore di questo non era consapevole, e se lo era se ne infischiava. Alla fine il mercato pareggiò i conti: chi aveva pagato tassi bassi si ritrovo una rata alta, e chi aveva accettato tassi alti (indebitandosi in lire) non subì perdite in conto capitale. Il pensionato tedesco che oggi si lamenta è, ahimè, nella stessa situazione, e i suoi mal di pancia li capisco. Ma tanto lì dobbiamo andare a parare, allo smantellamento del sistema, perché, come la storia che vi ho raccontato dimostra, alle leggi dell’economia si può sfuggire per un certo tempo, ma non per sempre. E più il tempo passa, più il contesto politico si degrada, e l’acredine si accumula, rendendo più arduo il componimento pacifico degli squilibri.

https://goofynomics.blogspot.it/2016/05/keynes-draghi-gollum-e-i-tassi-negativi.html#comment-form

Sapir: 5 tesi sull’euro

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[pullquote]…quando si impedisce che gli aggiustamenti avvengano attraverso il tasso di cambio, essi avvengono attraverso la disoccupazione che, deprimendo a sua volta il livello delle attività, produce altra disoccupazione. La votazione del Fiscal Compact da parte del Parlamento francese nell’ottobre 2012 ha congelato questa situazione, privando lo Stato della possibilità di condurre politiche fiscali adeguate…[/pullquote]

Come di consueto, Jacques Sapir ha parole sagge sul suo blog in tema di eurocrisi. L’economista francese articola in cinque tesi i modi in cui la moneta unica sta condannando alla miseria un intero continente. Occorre al più presto riconoscere la verità: l’euro è la causa, non la soluzione dei nostri problemi. E l’unico modo di salvare l’Europa è superare questo strumento inadeguato, tornando alle flessibilità valutarie.

I problemi posti dall’euro diventano sempre più evidenti con le mobilitazioni e le dimostrazioni di piazza in Francia contro la cosiddetta legge “Labour”. E’ ormai evidente che la basi economiche di questa legge sono imposte dalla nostra partecipazione all’eurozona. Dal momento in cui gli Stati vengono privati della possibilità di regolare la loro situazione economica tramite la svalutazione (o la rivalutazione) del cambio valutario, e in assenza di qualsivoglia sistema di trasferimenti fiscali previsti a priori, gli aggiustamenti possono avvenire solo a spese del fattore lavoro. Questa è l’amara verità, che si evidenzia sempre di più sotto forma della legge “labour”, la cosiddetta legge El Khomri, ossia il nome del Ministro a cui è stato imposto di presentarla, senza avere la possibilità di prendere parte alla sua ideazione. I problemi creati dall’euro possono essere esposti in 5 punti.

  1. L’euro non è una moneta; non corrisponde a un singolo soggetto politico né a una volontà politica basata sulla legittimazione popolare.

L’euro è un sistema che paralizza il commercio tra paesi. E’ un regime di cambi fissi di fatto affine al gold standard. Non ammette alcuna flessibilità. I Paesi non hanno più la possibilità di aggiustare il proprio tasso di cambio, cosa che sarebbe necessaria, considerando le normalissime differenze strutturali tra i paesi interessati, e l’assenza di un budget europeo, ossia di trasferimenti fiscali tra paesi dell’eurozona.

Ci sono 2 soluzioni a questo. La prima consiste nell’organizzare massicci trasferimenti fiscali come quelli che esistono all’interno delle economie dei singoli paesi. Per esempio c’è una rilevante eterogeneità tra le diverse regioni francesi, ma esse vengono tenute insieme grazie a trasferimenti fiscali netti di 300 miliardi di euro, mentre i trasferimenti a livello europeo ammontano a meno di 40 miliardi. Dovremmo quindi moltiplicare questi flussi di denaro di 7 o 8 volte, ossia fare un grosso balzo in avanti. Inoltre, questi flussi dovrebbero venire pagati essenzialmente da quei paesi che traggono beneficio dall’euro, proprio come in Francia i flussi di denaro vengono essenzialmente dalla regione di Parigi e della Valle della Senna. Questo non è un problema in Francia, perché siamo tutti Francesi e la redistribuzione tra regioni ci sembra normale, ma quando parliamo di eurozona, significa che tra l’8 e il 10% del PIL tedesco dovrebbe essere prelevato dalla Germania e trasferito a paesi come Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e perfino la Francia. Tuttavia, non possiamo chiedere tanto ai tedeschi. Non è nemmeno questione di sapere se sarebbero d’accordo a farlo. Semplicemente, distruggerebbe la loro economia.

L’altra soluzione consiste nell’organizzare svalutazioni interne competitive. Questà è la via scelta dall’eurozona fin dal 2010. In concreto, significa applicare nel nostro paese la politica suicida che Brüning applicò in Germania tra il 1930 e il 1932. Fu questa politica che pose le basi all’ascesa del Nazismo, non l’iperinflazione. Ed è bene ricordare che essa fu praticata nel nome del salvataggio delle banche tedesche. Queste furono in effetti salvate, ma il prezzo in termini di disoccupazione e miseria sociale fu mostruoso. Queste politiche di svalutazione interna sono esattamente le stesse che vengono ora implementate: un calo nominale dei benefit sociali, sussidi di disoccupazione o pensioni, e un calo nei salari nominali ottenuto attraverso diversi trucchi. Queste politiche mettono i Paesi che le applicano su un sentiero di competizione reciproca profondamente distruttivo per l’economia europea. Per esempio, si sente molto parlare della ripresa spagnola. Non solo ci vorrebbe molta prudenza sull’argomento, ma bisogna anche comprendere che questa ripresa sta avvenendo a spese della Francia e dell’Italia.

Infine, dobbiamo ricordare che la sentenza della Corte di Karlsruhe del 2011, cioè che esistono Popoli europei, ma non esiste alcun “Popolo europeo”, e che è all’interno di un contesto nazionale che si svolgono i processi democratici. In altre parole, la creazione di un sistema federale porrebbe enormi problemi in termini di democrazia.

2. Di conseguenza, l’euro è causa di recessione, sia strutturale sia di breve termine

E’ anche causa di regressione perché, quando si impedisce che gli aggiustamenti avvengano attraverso il tasso di cambio, essi avvengono attraverso la disoccupazione che, deprimendo a sua volta il livello delle attività, produce altra disoccupazione. La votazione del Fiscal Compact da parte del Parlamento francese nell’ottobre 2012 ha congelato questa situazione, privando lo Stato della possibilità di condurre politiche fiscali adeguate. Infatti, come possiamo vedere nelle tabelle suguenti, la crescita dell’eurozona è stata molto minore di quella degli stati dell’UE che non utilizzano l’euro. C’è stato, tra il 2000 e il 2015, un gap di circa l’1% annual, ossia un gap totale del 17% circa sull’intero perodo. Questo è un fatto, e molto significativo.

Tabella 1

Confronto tra la crescita nei paesi dell’eurozona e in 5 altri paesi OCSE

PIL 2015, indicizzato 100= 1999 Crescita media nel periodo 1999-2015 Crescita media nel periodo 1999-2007 Crescita media nel perido 2008-2015 PIL per abitante nel 2015, indicizzato 100=1999 Crescita media del PIL per abitante 2015
Belgio 125,6% 1,43% 2,23% 0,6% 114,1% 0,8%
Finlandia 128,2% 1,56% 3,73% -0,6% 118,0% 1,0%
Francia 122,2% 1,26% 2,11% 0,4% 111,3% 0,7%
Germania 121,5% 1,23% 1,64% 0,8% 122,7% 1,3%
Grecia 104,7% 0,29% 4,07% -3,4% 103,6% 0,2%
Italia 102,9% 0,18% 1,48% -1,1% 97,2% -0,2%
Olanda 121,6% 1,23% 2,28% 0,2% 113,6% 0,8%
Portogallo 106,2% 0,38% 1,52% -0,8% 104,3% 0,3%
Spagna 130,6% 1,68% 3,74% -0,3% 112,4% 0,7%
Totale 9 paesi dell’eurozona 119,1% 1,10% 2,18% 0,0%  
Totala senza la Germania 118,1% 1,05% 2,40% -0,3%  
Canada 142,3% 2,23% 2,80% 1,7% 120,5% 1,2%
Svezia 140,2% 2,14% 3,24% 1,0% 126,4% 1,2%
Regno Unito 134,9% 1,89% 3,00% 0,8% 122,0% 1,1%
USA 137,5% 2,01% 2,65% 1,4% 119,5% 1,2%

Fonte : data base FMI

A questo punto, dovremmo avere il coraggio di guardare in faccia la verità: i Grandi Progetti Europei sono stati il frutto della cooperazione tra paesi, ma non dell’Unione Europea stessa. L’Airbus non è stato creato dall’Europa. E’ un consorzio nato da una cooperazione franco-tedesca, a cui si sono aggiunti spagnoli e inglesi. Il razzo Arianna non è un progetto europeo, ancora una volta è un progetto nato dalla cooperazione tra Francia, Germania e Regno Unito, che la Francia riuscì ad imporre con una forzatura, nel 1971, la necessità di una mente-guida, per porre fine ai ripetuti fallimenti del razzo Europa. Tutti questi progetti si sono rivelati dei successi perché portati avanti dalla volontà politica di un paese, non dalla somma delle volontà burocratiche di Bruxelles. Allo stesso modo, il CERN esiste da molto prima dell’Unione Europea. E’ quindi perfettamente possibile coordinare, o anche meglio, cooperare nell’ambito di grandi progetti industriali, senza le istituzioni europee e a maggior ragione senza l’euro. D’altra parte, possiamo notare un calo negli investimenti a partire dall’implementazione dell’euro.

Tablella 2

Calo degli investimenti produttivi

Investimenti globali Investimenti per abitante
Livello 2015 in percentuale sul 1999 Tasso di crescita annuale Livello 2015 in percentuale sul 1999 Tasso di crescita annuale
Belgio 120,8% 1,2% 109,8% 0,6%
Finlandia 114,9% 0,9% 107,9% 0,5%
Francia 122,9% 1,3% 111,9% 0,7%
Germania 96,2% -0,2% 97,1% -0,2%
Grecia 47,2% -4,6% 46,7% -4,7%
Italia 77,2% -1,6% 73,0% -2,0%
Olanda 97,0% -0,2% 90,6% -0,6%
Portogallo 53,6% -3,8% 52,6% -3,9%
Spagna 100,5% 0,0% 86,5% -0,9%
9 paesi dell’eurozona 98,3% -0,1% 92,5% -0,5%
Canada 163,2% 3,1% 138,2% 2,0%
Svezia 157,8% 2,9% 142,2% 2,2%
Regno Unito 123,8% 1,3% 111,9% 0,7%
USA 120,2% 1,2% 104,4% 0,3%

Fonte : database FMI

Che l’euro fosse una causa di recessione strutturale è un fatto noto già da prima della crisi finanziaria del 2007. In un lavoro pubblicato nel 2007, e scritto poco prima, molti economisti mostrarono che l’euro è una causa di mancata crescita a livello mondiale[1]. Infatti, l’euro è causa di recessione in molti paesi e, per di più, indebolisce complessivamente la domanda nell’intera eurozona, pesando così sensibilmente sulla situazione economica mondiale. Possiamo notare che, fin dai primi anni 2000, la crescita aggregata dei paesi dell’eurozona è stata significativamente inferiore a quella USA, a quella del Regno Unito e a quella degli altri paesi OCSE che non hanno l’euro. Si può quindi attribuire all’euro parte degli squilibri che sono emersi fin dal 2007.

Ma l’euro è anche causa di recessione a breve termine. “Dobbiamo salvare l’euro”: è a causa di questo slogan che le politiche di austerità sono state imposte su tutto una serie di Paesi, aggravandone direttamente la crisi, come è capitato in Spagna, Grecia, Portogallo e Italia. Riguardo l’Italia, per esempio, dobbiamo essere consapevoli che la recente crisi bancaria italiana ha origine essenzialmente nell’accumulazione di crediti inesigibili, che non sono legati al mercato immobiliare, ma nel 90% dei casi ai debiti delle imprese, piccole aziende che sono state destabilizzate delle politiche recessive messe in atto negli scorsi anni. Il governo Renzi sta disperatamente provando a far ripartire il motore economico, ma al momento è costretto ad affrontare i problemi ereditati dal passato, come i malandati bilanci di 4 o 5 banche (si parla di più di 400 miliardi di crediti deteriorati), che ha causato un pesante crollo nella borsa di Milano. L’euro aggiunge crisi a crisi. Certo, tra il 2000-2001 e il 2006-2007, la Francia ha vissuto un periodo di crescita superiore a parecchi paesi dell’eurozona, in particolare rispetto alla Germania, ma perché?

  • La forte svalutazione dell’euro in quegli anni ha avvantaggiato la Francia.
  • L’ampiezza delle esenzioni dei contributi previdenziali. Questo sistema non è equo, dato che favorisce le grandi aziende e crea tutta una serie di problemi, ma è quello che abbiamo. E se la Francia ha avuto una crescita superiore alla Germania, è solo attraverso un costante rafforzamento di questo sistema di esenzioni, in altre parole, attraverso la restituzione alle società con una mano di quello che le si era tolto con l’altra, in modo da compensare gli effetti dell’euro.
  • Una politica di bilancio piuttosto espansiva durante questo periodo, la quale ha avuto effetti positivi, ma ha anche peggiorato considerevolmente il nostro debito pubblico (e soprattutto la bilancia commerciale con l’estero… MdVdE).
  1. L’euro è causa di finanziarizzazione dell’economia

L’euro ha permesso alla Germania e alla Francia di ottenere l’attuale finanziarizzazione. Ma allo stesso tempo, paradossalmente, l’euro non è stato capace di resistere a una crisi finanziaria. Possiamo vedere molto chiaramente che le regole operative della BCE, e le regole che sono state adottate dai vari paesi, mirano a rendere le attività finanziarie il vero perno dell’attività economica. Ciò è profondamente sbagliato. Sto seguendo per conto della Russia una possibile ristrutturazione del loro sistema finanziario e, per quanto mi riguarda, sono un sostenitore di un ritorno a forme di intervento per controllare la finanza. Qualcuno la chiama “repressione finanziaria”, ma è una definizione senza senso. Possiamo parlare di “reprimere” persone, o popolazioni. Ma quando parliamo di finanza, si tratta semplicemente di regole. Tuttavia, mettere in atto una regolamentazione della finanza, cosa che dovrebbe essere fatta non solo in Francia, ma in tutta l’Europa, non è possibile all’interno della struttura dell’euro. Cercare di governare la finanza è impossibile all’interno delle regole operative dell’euro.

Occorre qui ricordare che la finanziarizzazione tende a focalizzare gli attori finanziari sul breve o brevissimo termine. C’è stato un dibattito molto importante a riguardo tra Von Mises [2] e Neurath negli anni ’20. Da questo dibattito è nato il tema della “pianificazione Neurath” di tendenza socializzante, riguardo alla decisione di produrre elettricità da fonti idroelettriche piuttosto che fossili. Von Mises, che difendeva la posizione liberista, sosteneva che è sufficiente guardare al costo marginale del capitale, e la soluzione si sarebbe trovata da sola. Secondo Otto Neurath[3] invece, esistono costi nascosti che non sono subito evidenti, ma si manifesteranno tra 20 o 30 anni. Per esempio, il costo della Silicosi sui minori, il costo dell’inquinamento prodotto dalla combustione del carbone, e così via. E’ quindi necessaria una decisione politica, in questo caso tra carbone e idroelettrico, perché tale decisione creerà le sue stesse condizioni di validazione economica. Per questa ragione Neurath era a favore della pianificazione economica. E questo è uno dei più grandi problemi che dobbiamo affrontare, ma che saremo in grado di risolvere solo se ci tireremo fuori dalla globalizzazione finanziaria. Per inciso e paradossalmente, Hayek, nel suo libro del ’45 sulla conoscenza[4], era d’accordo con Neurath e contro Von Mises, come mostra J. O’Neill[5].

Il più grande problema posto dalla finanziarizzazione è quello della perdita della conoscenza tacita o implicita[6], che gioca un ruolo importante nella relazione tra colui che presta e colui che contrae il prestito, dal momento che il prestatore è impegnato in un progetto imprenditoriale. Qualsiasi registro, per esempio quello che è in fase di implementazione tra banche dell’eurozona, per quanto perfetto possa essere, non è in grado di fornire tutte le informazioni necessarie a un creditore perché possa impegnarsi con un debitore. Per questa ragione, un contatto diretto o indiretto tra creditore e debitore rimane essenziale. Perché credete che i jet privati si siano sviluppati così tanto negli ultimi 40 anni, se non per creare questo contatto diretto e personale tra grandi creditori e grandi debitori? Si crea un problema, se si cerca di unificare i mercati di capitali. Ciò è cruciale anche per i grandi paesi, ed è per questa ragione in particolare che essi hanno banche locali e regionali. Si possono allora unire queste banche in una rete, subordinarle a un organismo centrale, come successo con il vecchio Crédit Agricole. Ma, in particolare per le piccole e medie imprese, è importante che i contatti rimangano, in una particolare forma di conoscenza che nessun registro potrà mai contenere. Ciò significa che se si ritiene importante, a livello macroeconomico, avere almeno una parziale unificazione dei mercati di capitali, allora questa parziale unificazione deve prendere la forma di banche nazionali di investimento, tenute insieme, se necessario, da un organismo a livello europeo che offra loro le migliori condizioni di rifinanziamento. Questa è una delle ragioni per le quali è indispensabile l’esistenza di un sistema di regole bancarie e finanziarie. Tuttavia, questo sistema è oggi in contraddizione con l’esistenza dell’euro. Se si vuole uscire dalla finanziarizzazione, si deve essere determinati nel superamento dell’euro.

  1. L’euro è una macchina da Guerra che favorisce la Germania

Questa è una verità che può essere spiacevole ma che dobbiamo affrontare. Dirlo non significa essere germanofobici, ma riconoscere realisticamente un progetto portato avanti dalle élite politiche ed economiche tedesche. E’ l’euro che ha permesso alla Germania di trarre vantaggio fin dal 1999 di una moneta ampiamente svalutata rispetto a quanto avrebbe dovuto essere il valore del Marco tedesco. Gli studi svolti a riguardo non lasciano dubbi: se non ci fosse stato l’euro, il Marco varrebbe ora tra gli 1,35 e 1,50 dollari mentre l’euro è tra 1,08 e 1,09 dollari. Ancor più importante, l’euro garantisce alla Germania che i Paesi dell’eurozona con i quali commercia non potranno compensare le loro differenze strutturali attraverso le svalutazioni. Ma le svalutazioni sono un meccanismo economico essenziale: i Paesi hanno logiche differenti nella composizione dei costi, ed è necessari che in certi momenti queste differenze vengano ribilanciate attraverso il cambio valutario. Le politiche di svalutazione interna portano a politiche di svalutazioni competitive che hanno in realtà effetti peggiori delle precedenti, perché combinano effetti distruttivi notevoli sulle economie nazionali. Ma si potrebbe arrivare a forme di coordinamento se si tornasse alla flessibilità dello strumento valutario. Si potrebbe concordare di calcolare di quanto alcuni paesi debbano svalutare o rivalutare le loro valute, ossia, si potrebbe coordinarsi.

Ma comunque, è vero che la Germania ha notevoli esigenze di strutture comunitarie. Non solo per quel che riguarda i migranti. Parte del sistema ferroviario e dei ponti, cade a pezzi. Ma allo stesso tempo, l’arrivo di più di un milione di persone farà abbassare i salari. Certo, ci sarà un salario minimo, ma possiamo comunque essere sicuri che nei prossimi 5 anni la proporzione di persone che recepirà il salario minimo aumenterà velocemente. Mentre il salario minimo era concepito inizialmente come un livello-base che doveva interessare soltanto un 10% dei salariati, la proporzione diventerà il 25-30%, cosa che continuerà a far calare il costo del lavoro, così come la domanda interna.

  1. L’euro è oggi causa di grandi conflitti in Europa.

L’euro è la causa principale dell’aumento del conflitto tra popoli europei. Basta andare ad Atene, a Roma o perfino in Spagna per farsi un’idea di come il clima che c’è tra popoli si sia profondamente deteriorato negli ultimi 3 o 4 anni. Oggi si possono sentire in Grecia e in Italia discorsi sui tedeschi che corrispondono pressappoco a quanto si diceva di loro negli anni ’50. Al di là delle questioni economiche, ora si pone un problema politico: come far sopravvivere l’Europa. Ma la sopravvivenza dell’Europa (che dobbiamo in questo caso separare dall’Unione Europea) può avvenire solo attraverso la dissoluzione dell’euro. Forse è ormai troppo tardi oggi per “salvare” l’UE, come possiamo constatare con la disintegrazione degli accordi di Schengen. Ed è anche vero che ormai l’UE si porta dietro il marchio indelebile di politiche antidemocratiche in molti paesi. Ma lo spirito europeo, la riconciliazione tra popoli, che non nega il fatto che gli Stati così come i popoli possano avere interessi divergenti, deve essere preservato. Tuttavia, tutto questo non sarà possibile se ci terremo l’euro.

http://vocidallestero.it/2016/03/18/sapir-5-tesi-sulleuro/

Grecia, riforma pensioni: tagli dal 15 al 30% sui futuri assegni

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flags_of_GreeceLa proposta del governo fissa un massimale mensile di 2.300 euro e un limite di 3mila per chi somma più di un trattamento. “Stiamo cercando di evitare il collasso”, ha spiegato la portavoce del premier Olga Gerovassili. Infatti la sforbiciata è il prerequisito per ottenere gli aiuti previsti dal nuovo piano di salvataggio. Ma per l’ex ministro del Lavoro “aumenterà la disoccupazione”… <<<leggi>>>

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01/05/grecia-tsipras-presenta-riforma-pensioni-tagli-dal-15-al-30-sui-futuri-assegni/2351161/

TTIP: la storia si ripete

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La crisi è democratica: colpisce la maggioranza. Le persone colpite, che appartengono agli ambiti più disparati, ogni tanto reagiscono, e lo fanno in base al proprio bagaglio culturale e alla propria esperienza di vita, com’è normale che sia, e ciascuno ponendo se stesso, quello che sa e quello che ha fatto come chiave di lettura privilegiata. È umano. Abbiamo così letture botaniche della crisi, letture filateliche della crisi, letture giuridiche della crisi, letture naturalistiche della crisi, e chi più ne ha più ne metta.

Da ognuno c’è qualcosa da imparare, ma rimane il fatto ineludibile che questa è una crisi economica, cioè quella cosa che si verifica quando per motivi che abbiamo illustrato tante volte la gente si trova senza soldi in tasca. Va anche ricordato che, come i marZiani dovrebbero sapere e come una lettura anche superficiale dei fatti dimostra (soprattutto in Italia), le dinamiche economiche reggono quelle politiche, che a valle reggono quelle giuridiche, ed è questo simpatico trenino, guidato dalla locomotiva “Economia”, che ci porta a spasso per le interminate praterie della SStoria.

Deriva da questo semplice (ma ineludibile) fatto il vantaggio comparato di questo blog. So che dispiace a molti, ma per fortuna piace a voi, e tanto mi basta.

Oggi voglio parlarvi, da economista, e più precisamente da economista applicato, del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Parlare di un trattato commerciale in chiave economica è, lo premetto, una lettura riduttiva, e lo sappiamo benissimo. Quello che inquieta del TTIP sono alcuni aspetti giuridici, in particolare giurisdizionali, come la possibilità, che abbiamo sentito evocare più volte, per le imprese multinazionali di chiamare in giudizio gli Stati sovrani (?) che non si attengano alle prescrizioni di liberalizzazione del mercato che il trattato promuove (e che si riferiscono, badate bene, non alle barriere tariffarie – cioè ai dazi – ormai in via di definitivo smantellamento nel quadro dell’OMC, ma a quelle non tariffarie, cioè alle normative ambientali, igieniche, di sicurezza alimentare e fisica, ecc.). Insomma, la famosa fiorentina all’ormone della quale sentite ogni tanto parlare sui giornali.

Rimarrà deluso Emilio Pica, che in un afflato socratico ci ha confessato di amare le donne androgine: nel meraviglioso mondo del TTIP tutti avranno una sesta di reggiseno, anche i maschietti.

Questo, naturalmente, per quanto riguarda la parte “trade“. Poi c’è quella investment, che lasceremo da parte.

Parlare di un trattato commerciale in chiave economica è quindi riduttivo, ma, come vedrete, indispensabile per cogliere pienamente il carattere truffaldino e antidemocratico dell’operazione in corso, un’operazione che, come solo un economista può aiutarvi a cogliere pienamente, è del tutto isomorfa a quella compiuta col Trattato di Maastricht. Vengono cioè vendute agli elettori come conquiste assodate risultati di studi metodologicamente dubbi, palesemente in conflitto di interessi, i cui risultati vengono proposti orchestrando un falso pluralismo, e dietro ai quali ci sono, ovviamente, i soliti noti.

Il prequel

Come andò con il Trattato di Maastricht lo sapete e comunque ve lo ricordo in l’Italia può farcela. Michael Emerson, Jean Pisani-Ferry e Daniel Gros, prezzolati dall’Unione Europea (perdonatemi: “pagati” non è il verbo giusto, anche perché sono morte delle persone, chiaro?), nel loro studio One market, one money, affermarono che “a major effect of EMU is that balance of payments constraints will disappear in the way they are experienced in international relations. Private markets will finance all viable borrowers, and saving and investment balances will no longer be constrained at the national level” (Emerson et al., 1990, p. 24).

Notate la raffinatezza della loro linea di attacco. Studiosi come Kaldor avevano da tempo ammonito che una moneta senza stato avrebbe disintegrato politicamente l’Europa, in particolare perché avrebbe creato squilibri che sarebbe stato necessario rifinanziare attraverso un budget federale. E allora i tre porcellini che si inventano? L’uovo di Colombo: loro sostenevano che non ci sarebbe mai stato bisogno, per il Nord, di rifinanziare il debito del Sud mediante trasferimenti, perché i mercati finanziari avrebbero prestato solo a chi fosse stato in grado di generare sufficiente reddito da ripagare i debiti (i “viable borrowers”, appunto). Ritenevano, cioè, i nostri amici, che non sarebbe stato necessario costituire uno Stato europeo, almeno nell’immediato, perché il mercato, che non può sbagliare, avrebbe pensato da sé a trasferire ove necessario i fondi, all’interno della nuova area finanziariamente integrata, senza bisogno di costruire un bilancio federale, e anzi affidando ai bilanci pubblici nazionali il compito di “respond to national and regional shocks through the mechanisms of social security and other policies” (ibidem). Non ci sarebbe quindi mai stata una crisi di debito estero all’interno dell’Unione Monetaria (tesi che alcuni economisti ancora oggi sostengono – vedi Boldrin – ma che è sconfessata dai fatti e dall’interpretazione della stessa Bce).

Infatti, che le cose non siano andate come Pisani-Ferry sosteneva (e Boldrin sostiene), ce lo ha spiegato Constâncio(2013) (ma anche De Grauwe 1998); prima che i tre porcellini si esprimessero, come sarebbero andate le cosa lo avevano chiarito Thirlwall 1991, e subito dopo Feldstein 1992, e decenni prima Kaldor 1971 e Meade 1957. Se siamo nei guai è proprio per colpa degli errori dei mercati finanziari privati, che hanno accumulato insostenibili debiti esteri all’interno dell’Eurozona. Quindi i tre porcellini mentivano sapendo di mentire, perché erano pagati per mentire.

Il percorso è sempre quello: da Pangloss (“tutto va per il meglio nel migliore dei mercati possibili”) a Eichmann (“non sapevo, eseguivo gli ordini”), con biglietto di andata e ritorno, perché in mancanza dei drastici rimedi adottati dal governo israeliano nel caso in specie gli illustri colleghi rimangono disponibili ad appoggiare il progetto successivo. Ma le “incognite” delle quali parla Pisani-Ferry tutto erano fuorché “incognite”: i rischi dell’Unione Monetaria erano stati denunciati dalla letteratura accademica e divulgati sulle più importanti testate finanziarie internazionali. Quindi “io non sapevo” meriterebbe il trattamento che ha avuto in altri tribunali, ma passons. Noi siamo per la non violenza, cioè per subire la violenza, non per esercitarla, perché gli altri, come vedete, tanti scrupoli purtroppo non se li fanno.

Il sequel

E oggi? Come vanno oggi le cose, con il TTIP? Nello stesso identico modo. Ci vengono proposte come verità oggettive i risultati di studi basati su una cieca fede nella capacità autoequilibrante del mercato, studi dei quali fin da ora è possibile sconfessare gli errori metodologici, ma, attenzione: gli studi vengono a valle di decisioni politiche già prese (come fu per One market, one money)…

Ci aiuta a orientarci un recente studio di Jeronim Capaldo, The Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership: European Disintegration, Unemployment and Instability.

Non lasciatevi fuorviare dal nome: nonostante la collocazione negli States, il Jeronim cui facciamo riferimento non è questo, è questo. Jere è romano de Roma, ma la sua mamma no, da cui la scelta un po’ esotica del nome di battesimo. Io ho studiato “Ragioneria I” con suo zio, sono stato in commissione ricerca alla Sapienza con sua madre, e molti di noi sono stati, credo, clienti della sua famiglia (com’è piccolo il mondo…). Lui, a sua volta, è stato mio “cliente” quando ero ricercatore in econometria alla Sapienza, nel lontano anno accademico 2001-2002, quando discusse una tesina sulla curva di Phillips (pensa un po’ te…).

Ora è finito qui, da dove è stato mandato qui a lavorare sul Global Policy Model. Mi illudo di essergli stato un po’ utile (o per lo meno lui la pensa così), e sono contento che ci sia un economista eterodosso infiltrato a Ginevra. Sì, perché Jere è relativamente “de sinistra”. Certo, questo lo ha portato a commettere un errore cruciale: ha diffuso in Italia i risultati del suo pregevole studio tramite un forum che nessuno legge (rank in Italy: 27804, secondo Alexa oggi), perché, come sapete, ha tradito. Lo Sbilifesto merita di essere consegnato all’oblio (e li esorto a considerare che, per quello che hanno fatto – soffocare scientemente il dibattito sulla moneta unica, quel dibattito che sono riuscito a portare dove sapete – l’oblio è molto meglio dell’alternativa), però lo studio di Jere no, e visto che uno di voi me l’ha segnalato, ne faccio una simpatica sintesi per i diversamente europei e diversamente economisti. Gli faremo così risalire più di 24000 posizioni in termini di visibilità: mi aspetto una cassetta di vino per questo, va da sé…

Dunque: il copione è sempre il solito. Esattamente come in One market, one money:

1) vengono proposti come vantaggi certi e determinanti dei vantaggi aleatori ed irrisori;

2) non vengono quantificati i potenziali svantaggi;

3) i metodi di analisi adottati si basano su una anacronistica fiducia nel mercato.

Le tre caratteristiche sono ovviamente connesse. Nel caso del TTIP si aggiunge ad esse una quarta, simpatica caratteristica:

4) l’impianto del progetto è intrinsecamente contraddittorio con il progetto europeo.

Vediamo un po’ perché.

Vantaggi irrisori

Cominciamo dal primo punto. Come ricorderete, One market, one money quantificava il riparmio di costi di transazione (commissioni su cambi) determinato dall’Unione monetaria in uno 0.4% del Pil, che si sarebbe evidentemente verificato una tantum. Voglio cioè dire che in un singolo anno l’abolizione di questi costi avrebbe fatto crescere il Pil dello 0.4% in più. Ma una volta aboliti i costi, i costi non ci sarebbero più stati (per definizione), e quindi già dall’anno successivo non si sarebbero avuti ulteriori effetti. Ve lo spiego in un altro modo: nell’anno dell’introduzione della moneta unica avremmo avuto 0.4 punti percentuali di crescita in più, negli anni successivi no. Chiaro?

Ovviamente Eichengreen ci si fece una bella risata sopra: “Ma come vi viene in mente di affrontare un progetto così incerto a fronte di un beneficio così irrisorio?”. Ma sse sa, signora mia, la ggente so tanto tanto ‘nvidiosi, gli americani c’hanno paura che je rubbamo er monopolio de ‘a moneta…

(discorsi da comare che oggi si sentono solo in certi seminari…)

Oggi non va tanto meglio. Lo studio leader per la valutazione dei benefici economici del TTIP è quello del CEPR (e come ti sbagli): Reducing Transatlantic Barriers for Trade and Investment. Come nota Jere, le conclusioni di questo studio sono presentate dalla Commissione come fatti, e allora, da bravi europei, facciamo così anche noi. La Table 2 dello studio di Jere riporta una valutazione comparativa dell’impatto sul Pil europeo nel 2027 (fra 13 anni). Il CEPR (che verosimilmente è quello che ha preso più soldi dalla Commissione) è il più ottimista. In caso di realizzazione di una “full FTA” (Free Trade Area, zona di libero scambio, con pieno abbattimento delle barriere interne, ma mantenimento di barriere tariffarie differenziate verso i paesi terzi – cioè gli Usa potrebbero adottare verso la Cina dazi diversi dall’Europa, in pratica), bene, in questo caso estremamente favorevole, il beneficio sarebbe immenso: lo 0.48% in più del Pil spalmato su 13 anni (cioè un aumento del tasso di crescita medio europeo dello 0.03% l’anno circa)!

Dice: ma che mme stai a pijà per culo? No, no, sto leggendo la Table 16 a p. 46 dello studio del CEPR. Quindi, pensate, se adottassimo il TTIP subito, con un colpo di bacchetta magica, l’anno prossimo la crescita europea sarebbe non del previsto 1.35%, ma, udite udite, dell’1.38%.

Sono i dettagli a fare la delizia dell’intenditore, e questi dettagli potete leggerli solo qui!

Ora, per carità, io capisco di non poter impedire alla maggior parte di voi di adottare toni barricaderi e piazzaleloretisti. Quindi ragliare “multinazzzzionali bbbbrutte, lobby cattive, attentato alla costituzzzzione”, per poi andare all’osteria a farsi un quartino di bianco, è, come dire, la soluzione naturale che si presenta a molti di voi, e, fra l’altro, è un approccio giustificatissimo: dietro questo autentico attentato alla nostra costituzione c’è in effetti il potere di lobbing delle multinazionali, che di fatto agiscono nel loro, certo non nel nostro interesse.

Ma che sorpresa, eh?

A me però, invece di questo segreto di Pulcinella (che strano! I ricchi e potenti comandano nel loro interesse e comprano i politici per farsi i fatti propri! Chi lo avrebbe mai detto?) sembra molto più sorprendente, divertente e dirompente andare a leggere sui documenti ufficiali in base a quali pretesi vantaggi questo attentato ai nostri diritti viene perpetrato. Ci stanno vendendo per una cosa che dal punto di vista statistico è del tutto insignificante. A questo punto chi vuole piazzaleloreteggiare alzerà i toni, sbraiterà, si raccoglierà sotto la bandiera della rivolta, cederà al demone del qualcosismo (“dobbiamo fare qualcosa”), malattia senile del qualunquismo.

Chi invece vuole vincere una battaglia di democrazia andrà avanti con la lettura e mi aiuterà a portare questo dibattito nelle sedi opportune (cosa che, occorre saperlo, non è gratis).

Sintesi: per la seconda volta ci stanno proponendo un progetto che comporta rischi notevoli promettendo un beneficio che perfino ricercatori in conflitto di interessi e distorti in favore del progetto (perché pagati da chi lo propugna) quantificano come irrisorio.

I potenziali svantaggi non vengono quantificati

Veniamo al secondo punto (che poi è connesso al terzo): i potenziali svantaggi non vengono quantificati (punto 2) anche e soprattutto perché l’impianto analitico utilizzato per verificare i vantaggi nega che esistano gli svantaggi, e lo fa sempre per il solito motivo: perché si basa su una cieca fiducia nel mercato (punto 3).

Del caso di One market, one money abbiamo già parlato: l’idea era che non ci sarebbero state crisi finanziarie perché i mercati finanziari non avrebbero potuto sbagliare.

Nel caso delle valutazioni del TTIP, la fiducia nel mercato si traduce nel fatto che il modello analitico utilizzato per valutare il progetto è un cosiddetto modello CGE (Computable General Equilibrium). Due fra i quattro studi che Jere analizza utilizzano proprio lo stesso modello CGE, il GTAP. Il punto è che questi modelli sono basati sul paradigma neoclassico, per cui l’offerta crea la propria domanda, ovvero, in altri termini:

1) tutti i mercati sono riportati perennemente in equilibrio (a meno di frizioni temporanee) dall’aggiustamento dei prezzi relativi, e quindi:

2) tutta la produzione offerta viene anche domandata, e quindi:

2.a) il Pil è determinato da quanto si produce, non da quanto si compra, e

2.b) non c’è disoccupazione.

Abbiamo parlato di alcune implicazioni di questo approccio qui. Ora, nel caso che ci interessa, Jere fa notare che il principale limite di questi modelli consiste nel meccanismo di adattamento alle modifiche normative da essi ipotizzato. Una liberalizzazione del commercio espone alla concorrenza internazionale settori finora protetti, e l’idea è quella darwinista che così i migliori sopravviveranno, e i peggiori andranno a fare altro. I settori più competitivi delle singole economie, quelli che hanno un vantaggio comparato, assorbiranno in tal modo le risorse che si rendono libere negli altri settori, con beneficio di tutti.

Ad esempio: se in Italia la siderurgica non è competitiva, ma l’agroalimentare sì, le acciaierie chiudono e gli operai vanno a lavorare la terra. Facile, no? Ma non ditelo agli operai dell’AST…

Ci sono però alcuni problemini evidenziati da Jere:

1) Intanto, perché questo non produca disoccupazione (e quindi spreco di risorse) a livello aggregato, occorre che i settori competitivi si espandano abbastanza da accogliere tutte le risorse (umane e altre) lasciate libere dai settori “sconfitti” dal mercato;

2) inoltre, le risorse di cui trattasi (che poi sono persone) devono essere molto poliedriche! Il modello presuppone, nelle parole di Jere, che un operaio di una catena di montaggio possa riciclarsi istantaneamente come dipendente di una software house (purché sia disposto ad accettare un salario sufficientemente basso).

3) Qui subentra un terzo problemino, che ora comincia ad essere chiaro a tutti. Il meccanismo di aggiustamento basato sulla flessibilità dei salari al ribasso conduce fatalmente a crisi di domanda. Ovviamente un modello nel quale si rappresenta solo l’offerta di questo aspetto non tiene conto. In un modello simile ci sarà sempre piena occupazione: sarà la flessibilità verso il basso del salario a indurre l’imprenditore ad assumere. Il problema, però, è che questo tipo di modello non considera il fatto che i “costi” che la riforma degli scambi internazionali spinge a tagliare (per diventare più competitivi) sono anche i redditi che sostengono la domanda aggregata di beni.

Ci sono poi problemini “minori” (come l’effetto Daverio-Zingales: maggiore esposizione a shock idiosincratici), ma quelli li lasciamo per dopo. Qui occupiamoci degli effetti sull’occupazione. Lo studio del CEPR è commovente: andate a pagina 71:

“It should be stressed that the model is a long-run model, where sources of employment and unemployment are “structural” (rather than cyclical). In this sense, changes in labour demand are captured through wage changes (in this case rising wages). As wages increase in the experiments, this means a rising demand for labour, so that under a flexible labour supply specification, employment would increase instead.”

Ovvero: la relazione fra domanda e occupazione (gli effetti ciclici) non ci interessa – il che, considerando che grazie all’euro la recessione durerà una decina di anni, qualche dubbio lo fa sorgere; le variazioni della domanda di lavoro sono segnalate solo da quelle del costo del lavoro: se i salari aumentano, significa che c’è più domanda di lavoro da parte delle imprese, e quindi più occupazione. E quindi? E quindi l’impatto sulla disoccupazione non viene nemmeno misurato, perché la disoccupazione c’è se la domanda di lavoro (da parte delle imprese) è inferiore all’offerta (da parte delle famiglie), e tutto quello che il modello misura non è quanti posti di lavoro verranno creati o distrutti dal TTIP, ma come la forza lavoro (che si suppone sarà tutta occupata) verrà riallocata da un settore all’altro, considerando separatamente gli effetti per gli “skilled” (qualificati) e i “non skilled” (non qualificati). Quindi, ad esempio, la Table 34 dello studio ci dice che nell’UE la quota di lavoratori “skilled” allocati nell’agricoltura aumenterà dello 0.07%, ma non ci dice quanti nuovi posti di lavoro ci saranno in agricoltura.

E va be’…

Qui i problemi sono due. Il primo ve l’ho detto: di posti di lavoro si preferisce non parlarne, et pour cause. Il meccanismo del modello, per i tre punti sopra esposti, può considerare solo effetti riallocativi, sotto l’ipotesi estremamente eroica che la riconversione di un operaio siderurgico in un dentista, o quella di un parrucchiere in un progettista aerospaziale sia istantanea e senza costi. L’altro aspetto è che la stima dei potenziali benefici in termini di salari (l’idea che i salari crescerebbero) è basata sull’ipotesi che la distribuzione del reddito rimanga costante. Come nota Jere, il CEPR prevede che nel 2027 la famiglia europea media guadagni 545 euro in più all’anno (45 euro in più al mese!) grazie al TTIP, ma questo, ovviamente, se la distribuzione del reddito rimane invariata, perché se invece la quota salari continua a scendere, il maggior Pil andrà ai profitti, non ai salari, e non tutte le famiglie beneficeranno in ugual misura dei mirabolanti incrementi di cui sopra (lo 0.48%).

La vera chicca

Ma concludiamo con la vera chicca. Gli effetti su Pil e redditi sono irrisori, perché sono irrisori, secondo lo stesso CEPR (cioè secondo la commissione) gli effetti sul commercio! Il commercio bilaterale crescerebbe tantissimissimo (quante volte abbiamo sentito questa storia), ma siccome crescerebbero sia le esportazioni che le importazioni, l’impatto netto non sarebbe così rilevante. Le esportazioni europee extra-UE nel 2027 in presenza di TTIP sarebbero del 5.9% superiori a quanto si avrebbe in assenza di TTIP. Il risultato di questa bella storia è che in effetti il TTIP disintegrerebbe l’Europa, nel senso di ridurre il commercio intra-zona (vedi la Table 24 dello studio CEPR). Insomma: con il TTIP gli europei commercerebbero di meno fra loro, e di più con gli Stati Uniti.

Ora, come ci siamo detti più volte, il beneficio di creare un’Unione economica è quello di avere un grande mercato che permetta di assorbire shock esterni: se gli Stati Uniti vanno per aria, la caduta della loro domanda viene compensata dal fatto che il grande mercato unico europeo in teoria sostiene l’acquisto dei beni europei. In pratica no, perché l’euro condanna a politiche di deflazione competitiva, come vi ho spiegato, ma almeno in teoria…

Con il TTIP questo beneficio teorico verrebbe ulteriormente compromesso: saremmo più legati agli Usa, e quindi più esposti agli shock che da essi provengono, pur essendo ugualmente privi di strumenti di politica fiscale, monetaria e valutaria per reagire ad essi. Come nota Jere, un esito simile non lascia tranquilli.

Io mi limito a ribadire quello che abbiamo più volte osservato: i difensori dell’euro e di questa Europa sono costretti, fatalmente, a stuprare la logica. Tutto quello che fanno contraddice platealmente tutto quello che dicono. Vogliono più Europa, e firmano dietro le nostre spalle un trattato che disintegrerà l’Europa prima commercialmente, e poi macroeconomicamente, esponendoci a qualsiasi errore di gestione dell’economia statunitense (e non è che ultimamente ce ne sian stati pochi…).

Una valutazione indipendente

Ovviamente non è necessario valutare l’impatto di un trattato commerciale con modelli di equilibrio generale. Si possono anche usare modelli basati sulla sintesi neoclassica, in cui si considerano le interazioni fra domanda e offerta (come avviene nel modello di a/simmetrie e nella maggior parte dei modelli utilizzati da banche centrali e enti di ricerca: ce l’ha ricordato il prof. Lippi a Pescara).

Nel suo working paper Jere fa questo lavoro, e lo fa, da bravo europeo, prendendo per buoni i risultati dello studio CEPR, cioè ipotizzando che il volume del commercio si sviluppi, in seguito al TTIP, secondo quanto prevedono gli studi prezzolati finanziati dalla Commissione. Cosa cambia, allora? Cambia il fatto che usando un modello keynesiano:

1) si considerano gli impatti della variazione del commercio sulla domanda aggregata;

2) si considerano gli effetti di trade diversion, cioè il fatto che la maggiore integrazione fra Europa e Stati Uniti ha effetti sulle relazioni con i paesi terzi;

3) si considerano gli impatti su domanda di lavoro, salari reali e occupazione.

E che succede, se si tiene conto di queste cose?

Lo vedete nella Table 4 dello studio di Jere. Per la maggior parte dei paesi europei il TTIP comporterebbe un peggioramento del saldo delle partite correnti, verosimilmente perché a causa della stagnazione della domanda interna (cioè dei bassi redditi) gli europei si rivolgerebbero sempre di più a beni a basso valore aggiunto, nei quali sono meno competitivi: meno golf di Cucinelli, più magliette di cotone cinesi (importate via Stati Uniti, va da sé).

Risultato: un peso ulteriore sulla bilancia dei pagamenti, che per i paesi del Nord sarebbe più grave che per noi – che già siamo stesi. Il tasso di crescita dell’economia d’altra parte diminuirebbe (com’è ovvio, dato il calo della domanda estera netta), e l’Europa sperimenterebbe una perdita di circa 600000 posti di lavoro. Non è una cosa enorme, considerando che la nostra popolazione attiva è di oltre 240 milioni, ma sarebbe meglio farne a meno, soprattutto perché i redditi di chi il lavoro lo conserverebbe diminuirebbero (il modello delle Nazioni Unite prevede in Italia una diminuzione di 661 euro per occupato, anziché un aumento di 545 per famiglia), e con essi la raccolta fiscale, con impatti negativi sulla sostenibilità dei conti pubblici.

Per carità, io sono di parte. Jere mi sta simpatico e l’Europa mi sta sui coglioni, però qui stiamo parlando di analisi condotte con un modello delle Nazioni Unite, e basato su ipotesi lievemente meno ideologiche di quelle adottate dall’oste Commissione Europea per valutare il vino TTIP.

Se a questo aggiungiamo il fatto che la storia che avremmo lavorato un giorno in meno ecc. ce la siamo già sentita dire, ecco che qualche motivo di allarme sorge, e un’analisi economica ci aiuta a motivarlo in termini oggettivi, quindi dialetticamente più efficaci del piazzaleloretismo e del window flagging.

Perché?

E allora chiediamoci perché? Perché i nostri governanti ci stanno consegnando a questo progetto che ha benefici irrisori, costi potenzialmente elevati, ed è contraddittorio con la retorica dell’integrazione europea.

E la risposta è semplice: perché l’Unione Economica e Monetaria, che ci viene venduta come il momento più alto di realizzazione della nostra identità europea, di un nostro comune progetto europeo, in realtà è il momento più infimo del nostro asservimento all’ideologia e agli interessi statunitensi. Ne ho parlato tante volte, non ci ritorno, ma quello che va capito è il senso complessivo dell’operazione, che secondo me è questo: gli Usa hanno bisogno di un mercato di sbocco perché, da potenza declinante, stanno perdendo potere di signoraggio sui mercati internazionali.

Gli sviluppi delle relazioni bilaterali fra i BRICS, e in particolare la dedollarizzazione degli scambi fra Cina e Russia, se dovessero generalizzarsi, significherebbero per gli Stati Uniti la fine del periodo dello “stampa (dollari) e compra (ovunque nel mondo)”. Il “privilegio esorbitante”, come lo chiamava Valery Giscard d’Estaing, verrebbe meno in un mondo nel quale il dollaro non fosse l’unico e solo strumento di regolazione delle transazioni sui mercati internazionali. A questo punto gli Stati Uniti non potrebbero permettersi più di essere in deficit strutturale netto verso l’estero. Puoi essere “acquirente di ultima istanza” se stampi a casa tua la moneta nella quale acquisti. Quando le cose non vanno più esattamente così, ti conviene avere una posizione equilibrata negli scambi con l’estero, altrimenti le cose si mettono male.

Il +1% di esportazioni nette che il TTIP potrebbe arrecare agli Stati Uniti andrebbe proprio nel senso di ridurre il loro deficit (a costo di un aumento del nostro). L’Europa diventerebbe la periferia, in una nuova edizione del romanzo di centro e periferia, da voi tanto amato, dove gli Usa, chiedendoci l’Ani, ci inonderebbero della loro liquidità (con la quale il resto del mondo progressivamente avrebbe iniziato a nettarsi le terga), allo scopo di farci acquistare i loro simpatici bistecconi transgenici.

Sappiamo tutti quali siano gli incentivi che le élite periferiche traggono dal vendere i propri subalterni alle élite del centro, quindi di cosa ci stupiamo? Direi di nulla: BAU! Non è un cane: vuol dire business as usual. E naturalmente qui sento i ragli dei piddini renziani (ormai tocca distinguere): “eh, ma l’euro ci aiuterebbe a difenderci!”.

No!

Noooo!

Nooooooooooooo!

Le cose stanno esattamente al contrario, e ancora una volta tutto questo ci è stato detto, e detto in faccia, e detto in sedi autorevoli. L’euro non ci aiuta a difenderci nemmeno un po’, e per due motivi ben evidenti. Il primo è che, come ormai sarebbe futile negare, è causa della nostra crisi, e quindi, banalmente, ci costringe ad affrontare in condizioni di debolezza qualsiasi negoziato internazionale. Il secondo è che nell’ottica statunitense l’euro è il primo passo verso la creazione di una moneta unica transatlantica, e questa non è una novità. Mundell ne parla da qualche anno, per capirci. E ora che sappiamo quali benefici ci abbia portato la moneta unica europea, e prima ancora quella italiana, siamo in grado di apprezzare quali e quanti benefici ci apporterebbe quella transatlantica.

Concludendo: nell’affrontare un tema così complesso sono io il primo a segnalarvi che l’ottica economica è necessariamente ristretta. Ma sarete d’accordo con me che aiuta a mettere a fuoco i probemi, no? Ricordatevi questo numero: +0.48% del Pil nel 2014. Va bene, non siamo Gesù Cristo: ma lui, almeno, fu venduto per trenta denari…

http://goofynomics.blogspot.it/2014/11/ttip-la-storia-si-ripete.html

Spagna batte l’italia sullo spread. Ma la crisi di Madrid è sempre più grave

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flags_of_SpainLa disoccupazione torna a crescere dopo sei mesi, mentre sono sempre meno gli immigrati in cerca di fortuna nel Paese iberico e aumentano gli spagnoli all’estero. Al punto che i soldi inviati a casa da chi è “scappato” hanno superato quelli che fanno il percorso contrario… <<<leggi>>>

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/10/07/spagna-batte-litalia-sullo-spread-ma-crisi-di-madrid-e-sempre-piu-severa/734699/

 

Dati… http://it.tradingeconomics.com/spain/gdp-per-capita

 

 

Crack immobiliare: Olanda è il nuovo incubo

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flags_of_NetherlandsCrack immobiliare, aumento della disoccupazione, crescita debole. Non stiamo parlando di un paese del Sud Europa, ma di un’economia che fino a pochi anni fa vedeva il suo premier inginocchiarsi sempre alle politiche di austerity di Angela Merkel. Rigore a tutti i costi, dicevano gli olandesi, sicuri della solidità dei propri conti e dei fondamentali… <<<leggi>>>

http://www.wallstreetitalia.com/crack-immobiliare-olandail-nuovo-incubo/

Con la moneta unica avremo più disoccupati

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Articolo leggibile direttamente nell’archivio di Repubblica.it

CAMBRIDGE – Si conclude a due passi dal King’ s College, dove insegnava Keynes, questa lunga audizione itinerante per raccogliere le opinioni di economisti americani, europei e giapponesi. La tappa inglese mi è stata suggerita, tra l’altro, dalla curiosità di conoscere, al di là delle ben note obiezioni politiche, le radici teoriche delle diffidenze britanniche nei confronti della unificazione monetaria e di una troppo spinta integrazione europea.

Ricordavo, infatti, come, ancor prima delle ostilità combattive, ma non di rifiuto assoluto, di Margaret Thatcher, i laburisti avessero già assunto verso la Cee una ostilità di principio , il cui impianto teorico si rifaceva, appunto, alla Scuola economica di Cambridge. I suoi diretti esponenti sono ormai scomparsi ma, almeno per questo verso se non per altri, un loro epigono può essere considerato Frank Hahn, forse il maggior economista inglese vivente, ormai alle soglie della pensione (dall’ anno prossimo viene ad insegnare a Siena, dove già tiene dei corsi).

Il personaggio ha fama di ostico, ma si rivela, invece, di gentilissima disponibilità, tanto che l’ intervista che mi concede è preceduta dall’ invio di un fax, con acclusa una piantina e raccomandazioni topografiche perché non mi perda nei labirinti dei “colleges” e delle facoltà universitarie. Quando arrivo, su un cartiglio attaccato a una parete dello studio, vedo scritto: “My life tangs by a thread”, ovvero “La mia vita è appesa a un filo”.

Mi chiedo se si tratti di un lontano riflesso dell’ infanzia, quando con i genitori, due intellettuali ebrei, dovette fuggire, prima da Berlino, dove era nato e, poi, nel ‘ 38, da Praga, dove la famiglia si era rifugiata, prima che vi arrivassero i nazisti. Ma la mia intuizione si rivela errata, almeno stando alla parola del professore, che attribuisce il simbolico detto all’ incertezza degli studi economici, e , quasi per certificarmelo, mi segnala le ultime righe di un suo articolo: “La mia tesi non è che le teorie del Ventesimo secolo non gettino alcuna luce, e neppure che i metodi che se ne ricavano non continueranno a darci qualche lume. Ma prevedo che questi lumi appariranno sempre più fiochi per ricercare risposte ai quesiti… i nostri successori dovranno interessarsi molto meno agli aspetti generali… per affrontare la complessità del particolare, come la simulazione informatica… non sono per essi – o almeno lo sono meno spesso – i piaceri dei teoremi e della prova.

I nostri successori saranno tentati dalle teorie grandi e fumose per sottrarsi al tedio del computer. C’ è da augurarsi che in complesso resisteranno a questa tentazione e aspetteranno pazientemente una nuova alba, come quella spuntata davanti a quanti di noi si sono avvicinati alla teoria economica dopo l’ ultima guerra”.

Una visione così disincantata è maturata lentamente, quale punto d’ arrivo delle delusioni applicative della Teoria degli equilibri economici generali di cui lei è uno dei massimi esponenti, oppure è sempre stata la sua posizione? E la matematica, in questa scetticismo verso le idee generali, che ruolo ha?

“Ho sempre creduto che la teoria economica avesse molta strada da fare per arrivare soltanto a metà cammino verso la cosiddetta scientificità. Come ho scritto in una nota biografica, ciò che mi separa da molti economisti americani è il fatto che essi considerano l’ economia una scienza e spesso si autodefiniscono scienziati, sulla base di quella visione del mondo, affermatasi nel XIX secolo, secondo cui quel che viene realizzato dalle scienze fisiche può essere ottenuto, con gli stessi mezzi, dalle scienze sociali. Ma finora l’ economia non ne ha fornito alcuna prova.

Se mai, l’ economia può essere paragonata al cervello umano per il grado di complessità; quindi siamo molto lontani dal capirne il funzionamento. Non direi, dunque, che sono un disincantato, anzi sono affascinato dall’ economia, pur avendone una visione realistica e constatando come siano stati fatti progressi nella comprensione dei fenomeni ma non nelle previsioni. Il maggiore ostacolo è che l’ evidenza empirica resta ambigua e non si può essere conclusivi nell’ abbracciare o respingere una teoria. Per questo considero la pretesa che l’ economia sia una scienza non solo prematura e non molto onesta ma, quel che è forse peggio, pretenziosa”.

In Italia, recentemente, si è sviluppata una vivace polemica tra economisti proprio attorno all’ uso eccessivo della matematica al di fuori di un sistema generale di pensiero…

“Vuol che le dica qual è il guaio in Italia? E’ che la filosofia viene insegnata nelle scuole e da qui si sviluppano desideri di grandiosità: si vuol mettere insieme e collegare tutto, la sociologia con l’ economia e con la politica. Ora, io credo che sia opportuno abbandonare le grandi idee ma non la matematica, che non è certamente di ostacolo al progresso del pensiero economico, anche perché, se non riusciamo a fare economia con la matematica, allora non possiamo proprio fare economia. Più complicata è la materia, più complicato deve essere il linguaggio che la esprime; il linguaggio matematico ci assicura che non vi sono incongruenze nei nostri ragionamenti. Il problema è che non riusciamo a trovare soluzioni analitiche per tutto, e anche se io mi appassiono ai teoremi e non ai computer, capisco che al giorno d’ oggi anche i matematici debbono ricorrere al computer, come, ad esempio, viene fatto per affrontare le nuove teorie sul caos”.

Il nostro colloquio sta andando lontano dal tema che mi ero prefisso: l’ atteggiamento inglese verso l’ Unione monetaria. Lei, al di là degli aspetti politici, vi vede anche un risvolto teorico?

“Ho tenuto qualche tempo fa una lezione alla Banca d’ Italia dove ho spiegato, dal punto di vista teorico, perché l’ Unione monetaria va contro quasi tutto quello che sappiamo di economia. C’ è una teoria dell’ area monetaria ottimale in cui si dice che la mobilità dei fattori della produzione è cruciale per il raggiungimento degli equilibri, anche se per un keynesiano questa teoria non tiene abbastanza conto di quella che egli considera la variabile centrale: il livello del reddito e, quindi, dell’ occupazione. Ora la mobilità del lavoro è abbastanza elevata tra Inghilterra e Scozia, ma non altrettanto in Europa, per differenze culturali, di lingua, di costumi sociali e, quindi, fissare i tassi di cambio non è una buona idea.

“Tra l’ altro, ho ricordato che la prima tesi contraria ai cambi fissi fu avanzata proprio da Keynes e si basava sulla difficoltà di riduzione dei salari e, quindi, del livello dei prezzi in un paese, se lo richiede la bilancia dei pagamenti. Tale difficoltà trasferisce allora il ruolo equilibratore, dal livello dei prezzi, al livello del reddito e dell’ occupazione (in altri termini, quando l’ industria di un paese non è più competitiva si produce uno squilibrio tra importazioni e esportazioni che si riflette sulla bilancia dei pagamenti: per farla tornare in equilibrio il costo di produzione industriale dovrebbe diminuire, grazie a una riduzione dei salari, ma questo è praticamente difficile, se non impossibile, a causa delle resistenze sindacali e politiche, per cui la via scelta è quella di diminuire l’ occupazione e, per questo mezzo, realizzare l’ equilibrio perduto, ndr).

Con l’ Unione monetaria, invece delle fluttuazioni del cambio si avranno fluttuazioni nel tasso di disoccupazione”.

Perché, allora, l’ altra grande area economica mondiale, gli Stati Uniti, che sono storicamente una Confederazione di Stati, hanno una moneta unica e un tasso di disoccupazione più basso dell’ Europa?

“Negli Stati Uniti trasferimenti delle persone da uno Stato all’ altro o da una regione all’ altra sono ingenti. Non credo che gli europei siano disposti ad effettuare migrazioni sufficienti ad alleviare la disoccupazione”.

Peraltro non crede che i cambi fissi abbiano il vantaggio di assicurare certezza negli scambi internazionali?

“L’argomentazione più comune contro l’ adozione di cambi flessibili è, appunto, che essi creano incertezza ma io credo il contrario. Questo in quanto i mercati valutari sono molto sviluppati; perché ci sono i mercati a termine e ci si può coprire contro i rischi di cambio. Di contro, come ho detto, i cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell’ occupazione. Il vero motivo per sostenere i cambi fissi è, in effetti, il controllo della classe lavoratrice. Infatti, fintanto che i governi non creano un meccanismo che leghi loro le mani, non è possibile contenere l’ inflazione salariale. Credo che i sostenitori del cambio fisso vogliano introdurlo solamente per la paura dell’ inflazione e, poichè di questi tempi siamo nelle mani dei banchieri centrali, per i quali il grande nemico è l’ inflazione più che la disoccupazione, questa scelta si spiega.

In Gran Bretagna qualcosa tra il 2% e il 4% del prodotto interno è stato sacrificato per combattere l’ inflazione. A mio avviso il prezzo da pagare è troppo alto anche se i banchieri centrali non la pensano così e il Cancelliere dello Scacchiere è del loro avviso. Con i cambi fissi pagheremmo questo prezzo fino in fondo”.

Lei, dunque, non teme che l’ inflazione sia un pericolo e che, come ha scritto recentemente l’ Economist in un articolo che ha fatto discutere, l’ unico tasso d’ inflazione desiderabile sia zero?

“Io temo l’ inflazione molto meno di tanti altri: temo molto l’ inflazione in fase di accelerazione ma non l’ inflazione di per sé. L’ Economist sottostima l’ intelligenza della gente. Gli operatori possono imparare quali sono le variazioni dei prezzi relativi sia con un inflazione al 3% che allo 0%. Non scaturisce niente di speciale da un inflazione a tasso zero: la cosa importante è che l’ inflazione sia costante. Molti studiosi sono d’ accordo nel dire che l’ inflazione pienamente prevista non comporta costi. La gente non vuole l’ inflazione quando è inattesa, basta pensare all’ effetto di quest’ ultima sul reddito di un pensionato. Tuttavia non dobbiamo nasconderci che in questo ragionamento resta una questione irrisolta e, cioè, come mantenere l’ inflazione costante. Questo è un vero problema”.

Come lo affronta? Con la politica dei redditi?

“Io penso che ci sia un tasso d’ inflazione naturale, in quanto molti aggiustamenti che si producono nel mercato avvengono in presenza di prezzi crescenti. Anche i comportamenti cooperativi tra le parti sociali si realizzano con prezzi crescenti e l’ inflazione in questo caso diventa quasi un lubrificante delle relazioni sociali, aiuta a trovare l’ accordo. Del resto tra il 1945 e gli anni Sessanta c’ era un’ inflazione al 2,5 per cento e la disoccupazione all’ 1,5 per cento e nessuno si preoccupava”.

Per quanto tempo prevede si prolungherà l’ attuale situazione di prolungata stagnazione? Se le prescrizioni keynesiane sono inapplicabili quale politica economica potrà riempire questo vuoto?

“Non credo che ci sarà una stagnazione. I meccanismi riequilibratori – sia politici che economici – sono potenti. In Gran Bretagna la recessione è stata indotta dal governo che ha voluto ridurre l’ inflazione e se ci dovesse essere veramente una stagnazione politici e banchieri centrali ne sarebbero responsabili. Peraltro, dall’ 87, la politica economica in Inghilterra come negli Stati Uniti è diventata più espansiva. Quanto alle politiche keynesiane non credo che siano state un fallimento, tanto che ora il governo conservatore le sta usando. Dobbiamo ricordarci, però, che esse sono state formulate per periodi di alta disoccupazione e non per situazioni abbastanza vicine alla piena occupazione. La gente è portata a concludere che esse hanno fatto fiasco solo perché oggi non ce n’ è bisogno, ma se diventasse opportuno mettere in atto quelle ricette, allora potremmo utilizzare tutte le conoscenze che abbiamo acquisito, da Keynes in poi”.

Perché è contrario a una Banca centrale europea indipendente?

“I lati positivi di una banca centrale indipendente sono evidenti. Essa, però, fa, comunque, parte delle istituzioni politiche e sociali di un paese e coloro che la dirigono non saranno totalmente impolitici e terranno ben presenti gli interessi delle loro stesse economie: ad esempio la Bundesbank finì per seguire Kohl al momento della riunificazione. Ma non c’ è all’orizzonte un governo federale europeo e non si capisce perché si debba avere una banca centrale sovranazionale: è difficile pensare a una istituzione politicamente più destabilizzante”.

Resta, comunque, il fatto che il Regno Unito, malgrado le difficoltà che inizialmente frappone ad ogni passo dell’ integrazione europea e alle eccezioni che oppone alla piena attuazione delle istituzioni comunitarie, in un secondo momento finisce in genere per accettarle. Come spiega questo atteggiamento?

“Il motivo principale per cui la Gran Bretagna è riluttante a far parte dell’ Europa è che una larga maggioranza della popolazione è contraria a questa idea per vari motivi. In primo luogo una certa xenofobia di vecchia data e la convinzione che l’ Europa significhi burocrati e politici corrotti. Gli inglesi, invece, sono molto fieri, e a ben ragione, delle loro istituzioni politiche e non vogliono perderle. Il motivo per cui alla fine cedono sta nel timore di rimanere isolati, soprattutto dal punto di vista economico. Una Europa unita piace molto ai politici, ed è un bene per loro, ma non per tutti noi. Io vedo il futuro dei popoli in piccole unità che si autodeterminano il più possibile: un enorme Stato europeo, controllato da Bruxelles è una prospettiva che mi fa paura”.

MARIO PIRANI