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Il coraggio di ciò che si sa

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Infine, il dato forse più significativo, che riguarda il calo dei redditi nel periodo considerato. Se nel 1991 il reddito netto medio in Italia era pari a 27.499 euro (a prezzi costanti del 2010), nel 2016 era sceso a 23.277 euro: un 15% in meno.

Pubblichiamo un testo di Vladimiro Giacchè nel quale è ricostruita la vicenda storica dell’Italia nell’euro, il passaggio di fase in corso, l’interpretazione del Governo Conte 2 e la sua valutazione critica sulla scelta di Patria e Costituzione di provare a giocare la partita nella maggioranza M5S-Pd-Renzi-LeU. Buona lettura.

Il secondo governo Conte e la sinistra Friedrich Nietzsche diceva che bisogna avere “il coraggio di ciò che si sa”.

1. Quello che sappiamo

Proviamo a mettere assieme quello che sappiamo sulla traiettoria economica dell’Italia negli ultimi decenni, su quanto è accaduto dall’introduzione dell’euro, prima e dopo la crisi e su quanto è accaduto dopo il 4 marzo 2018. Ci aiuterà a capire cosa fare.

1.1. La traiettoria economica dell’Italia negli ultimi decenni è la storia di un successo catastrofico

A differenza di quanto vuole una vulgata diffusa quanto falsa, questo paese negli scorsi decenni ha fatto diligentemente i compiti che gli sono stati assegnati. Ha eliminato la scala mobile (1993), ha eliminato l’economia mista (accordo Andreatta-Van Miert e poi privatizzazioni di Draghi), ha ridotto il debito dal 117% del 1994 al 100% del 2007.

Usando la crisi come spartiacque, possiamo distinguere due periodi, con l’aiuto di un recente paper dell’economista olandese Servaas Storm.

Dal 1995 al 2008 abbiamo realizzato un avanzo primario del 3% annuo (principalmente riducendo le spese sociali): nessuno è stato così bravo in Eurozona (la virtuosa Germania nello stesso periodo può vantare un avanzo di appena lo 0,7%, mentre la Francia evidenzia un disavanzo dello 0,1%). Questo sforzo in teoria sarebbe stato sufficiente per ridurre il debito dal 117% del 1994 a uno strabiliante 77% del 2008. Purtroppo però questo contenimento della spesa pubblica ha ridotto la crescita e questo ha all’incirca dimezzato la riduzione effettiva (in quanto il rapporto debito/pil è stato mantenuto più elevato dalla conseguente minore entità del prodotto interno lordo).

Dal 2008 al 2018, poi, l’Italia è stata protagonista di un consolidamento fiscale eccezionale. Lo possiamo vedere in questo grafico, tratto dalla ricerca di Storm.

Il consolidamento (restrizione) fiscale italiano ammonta a ben -227 miliardi di euro, a fronte di politiche espansive del valore di +461 miliardi da parte della Francia e di un dato complessivamente neutro per i paesi “Euro-4” (Belgio, Francia, Germania e Olanda). Secondo stime dello stesso Tesoro italiano, questo consolidamento, nei soli anni tra il 2012 e 2015, ha ridotto il prodotto interno lordo del 5% e gli investimenti del 10%.

Tirando le somme, i surplus primari realizzati dall’Italia tra il 1992 e il 2018 hanno sottratto domanda per 1 trilione di euro cumulato. Nel periodo la spesa pubblica non ha conosciuto alcun aumento, mentre gli investimenti sono diminuiti in ragione dello 0,5% annuo. Il disavanzo primario pubblico francese nel periodo ammonta a 475 miliardi, mentre il consolidamento realizzato complessivamente da Germania, Belgio e Olanda ammonta a circa la metà (-510 miliardi) di quello della sola Italia.

Ma siamo stati bravi anche su altri fronti. Ad esempio, abbiamo flessibilizzato il lavoro e contenuto più degli altri i salari (con l’eccezione della sola Germania nel periodo 2005-2010).

I salari sono aumentati di appena il 6% dal 1992 al 2018. Abbiamo così ridotto l’inflazione, aumentato la quota del prodotto interno lordo che va ai profitti, aumentato l’intensità di lavoro, e anche ridotto la disoccupazione sino allo scoppio della crisi, come si vede nel grafico che segue.

Ma al tempo stesso abbiamo ridotto la produttività del lavoro, ridotto l’incentivo a investimenti produttivi e ridotto la domanda aggregata; questo sia a causa sia del calo della quota salari, sia a causa delle misure di austerità.

La crescita cumulata della domanda interna nell’intero periodo tra 1992 e 2018 è risultata inferiore al 7%. Nello stesso periodo essa è cresciuta del 33% in Francia e del 29% in Germania. In tal modo è stato colpito anche il saggio di profitto, che come determinante di nuovi investimenti è più importante della quota parte dei profitti sul pil.

Infine, il dato forse più significativo, che riguarda il calo dei redditi nel periodo considerato. Se nel 1991 il reddito netto medio in Italia era pari a 27.499 euro (a prezzi costanti del 2010), nel 2016 era sceso a 23.277 euro: un 15% in meno.

La conclusione di Storm in relazione alla deludente crescita italiana del periodo è questa: “about 60% of the deterioration in Italy’s growth performance can … be directly attributed to Italy s self-imposed commitment to the EMU norms”. Ma è più in generale l’Eurozona nel suo complesso ad essere l’area a minor crescita del mondo.

Per questi trent’anni perduti, connotati da deflazione salariale, distruzione dell’economia mista, taglio ai servizi sociali, crescita economica stentata e quindi anche aumento del debito, gli indiziati sono parecchi.

La borghesia italiana, renitente a investire (anche quando, come nel 1992/3, l’aumento degli investimenti era stato pattuito quale contropartita dell’abolizione della scala mobile), ma assai rapida nel salire sulla scialuppa delle privatizzazioni: “il capitalismo delle bollette”, come è stato definito.

L’ideologia (e la prassi) del vincolo esterno: fatta propria da un’intera classe dirigente (politica, tecnocratica ed economica) che all’inizio degli anni Ottanta decide di risolvere i problemi sociali “legandosi le mani” e facendo fare a qualcun altro il lavoro sporco.

In particolare, ai mercati internazionali dei capitali, alle cui amorevoli cure, con il divorzio Tesoro-Banca d’Italia del 1981, avvenuto – non lo si ricorderà mai abbastanza – senza alcun passaggio parlamentare e con un semplice scambio di lettere tra le parti, è affidato il debito pubblico italiano: con il risultato di vederlo raddoppiato in 10 anni.

Poi, per risolvere il problema che avevamo con i mercati finanziari internazionali, abbiamo pensato bene di rivolgerci alla Germania. L’ingresso nell’euro è stato in effetti visto come un traguardo precisamente al fine di ricevere protezione, all’ombra della “credibilità” tedesca, dai mercati internazionali, a seguito della crisi del 1992. Crisi che, a ben vedere, ci aveva dato due lezioni: gli effetti devastanti della speculazione su un paese che aveva scelto – attraverso l’indipendenza della Banca Centrale dal Tesoro – di non monetizzare più il debito, ma anche l’insostenibilità per l’Italia di un sistema a cambi semi-fissi quale lo SME.

Si impara soltanto la prima lezione e, volendo mantenere a tutti i costi l’indipendenza della Banca Centrale realizzata nel 1981, si decide di imboccare la strada che porta a un sistema di cambi (irrevocabilmente) fissi.

Qui entra in gioco un altro protagonista: l’ideologia europeista, condivisa a questo punto non soltanto più dall’establishment tradizionale, ma anche dall’intera sinistra italiana postcomunista: l’Europa è considerata più in generale come una frontiera di civiltà, come uno strumento di modernizzazione del nostro paese (che per la verità era già, pur tra contraddizioni anche gravi, uno dei paesi più moderni del mondo).

1.2. I vantaggi e gli svantaggi della moneta unica 

I vantaggi della moneta unica sono rappresentati dalla fine del rischio di cambio e dalla convergenza dei tassi d’interesse verso quelli tedeschi. La prima ha consentito un incremento ha ridotto i costi di transazione e favorito gli scambi interni all’area monetaria, la seconda ha consentito di ridurre gli interessi sul debito.

Gli svantaggi sono rappresentati … dalla fine del rischio di cambio e dalla convergenza dei tassi d’interesse verso quelli tedeschi. In altri termini: quelle stesse conseguenze della creazione della moneta unica di cui per lungo tempo la nostra pubblicistica ci ha decantato gli effetti positivi hanno avuto effetti negativi non trascurabili.

In effetti la fine del rischio di cambio è l’altra faccia della medaglia della perdita della sovranità monetaria e della conseguente emissione del debito in una moneta straniera, per di più regolata da una Banca Centrale indipendente che ha il divieto di acquistare titoli del debito pubblico degli Stati e il cui unico obiettivo è la stabilità dei prezzi (e non l’occupazione) – caratteristiche che pongono un problema di compatibilità tra gli obiettivi che ispirano la nostra Costituzione e quelli perseguibili nel contesto dei Trattati europei. Inoltre il valore di questa moneta verso l’”estero” (ossia verso i paesi che non fanno parte dell’eurozona) ovviamente sarà il prodotto della media della forza economica dei paesi membri: con il risultato che per il più competitivo la moneta unica sarà una moneta sottovalutata (rispetto a quello che sarebbe stato il valore della sua singola moneta in assenza dell’unione monetaria) mentre per i meno competitivi sarà sopravvalutata. Infine, ed è questo l’aspetto essenziale, l’eliminazione di un meccanismo di mercato di riaggiustamento dei differenziali di competitività quale quello rappresentato dalla flessibilità del cambio – meccanismo che, ove presente, impedisce si creino squilibri troppo marcati nella bilancia commerciale dei paesi membri – accresce l’importanza di un altro fattore di competitività: quello consistente nella “moderazione salariale”. In altri termini, l’impossibilità di effettuare svalutazioni “esterne” costringe alla svalutazione interna, ossia a ridurre e tenere bassi i salari, quale strumento principe per il recupero della competitività.

Come noto, prima della crisi europea la Germania, soprattutto a partire dal 2005 (entrata in vigore dell’Agenda 2010 di Schröder), ha giocato con spregiudicatezza questa carta, come evidenziato tra gli altri dall’economista tedesco Peter Bofinger nel 2015, il quale ha evidenziato il ruolo giocato dalla politica mercantilistica tedesca imperniata sulla “moderazione salariale” nella genesi della crisi dell’Eurozona (cfr. grafico sottostante).

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Come si vede dal grafico che segue, tratto invece da un testo di Francesco Saraceno, negli anni considerati, la performance della Germania in termini di “moderazione salariale” spicca non soltanto nel confronto europeo, ma più in generale tra i paesi Ocse.

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Quanto alla convergenza dei tassi di interesse verso quelli tedeschi, il vero obiettivo inseguito dall’Italia entrando nella moneta unica, essa ha come noto in effetti abbassato notevolmente i tassi di interesse di molti Paesi dell’eurozona, tra cui il nostro, alleggerendo notevolmente l’onere rappresentato dal servizio del debito (pubblico e non solo).

Ma proprio questo ha, d’altra parte, aumentato la propensione all’indebitamento nei paesi interessati. Si è così verificato il fenomeno descritto nel ciclo di Frenkel, per cui questi paesi alimentano squilibri di bilancia commerciale, che sono però mascherati dalla creazione di debito, finanziato da altri paesi dell’area monetaria la cui bilancia commerciale è per contro in attivo.

Questo ci porta direttamente alla crisi. Che non è stata una crisi di debito pubblico, ma una crisi nata da squilibri delle bilance commerciali. La circostanza è stata ammessa sin dal 2013 dalla stessa Bce, come si vede dal grafico sottostante, tratto da una conferenza del suo vicepresidente Vitor Constancio, tenuta ad Atene nel maggio 2013; esso evidenzia che la variazione significativa nel debito dei Paesi periferici dell’Eurozona negli anni precedenti la crisi riguarda l’accumulo di debito privato e non di debito pubblico (soltanto in Grecia e Portogallo aumenta il debito pubblico, comunque in misura inferiore all’accumulo di debito privato).

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1.3. Gli aspetti critici dell’adesione dell’Italia alla moneta unica alla luce della crisi dell’area dell’euro

La crisi, tra i molti evidenti lati negativi, ha un aspetto indubbiamente positivo: essa ha messo in luce alcuni aspetti gravemente disfunzionali dell’architettura dell’Eurozona. La crisi è in un primo periodo importata in Europa dagli Stati Uniti e assume la forma di crisi da calo del commercio estero, e conseguentemente colpisce in particolare due paesi esportatori quali la Germania e l’Italia; sotto il profilo finanziario sono invece investite dalla crisi in particolare le banche di Francia e Germania. Questo determina un sudden stop nei flussi di capitale dai paesi centrali dell’Eurozona (i cosiddetti “paesi core”) a quelli periferici.

A fine 2009 inizio 2010 inizia la crisi della Grecia e la cosiddetta “crisi del debito sovrano”. La Bce, in coerenza con quanto previsto dal Trattato di Maastricht, si rifiuta di intervenire (peggiorando drasticamente una crisi che sarebbe stata facilmente gestibile con un costo finanziario limitato), i rendimenti dei titoli di Stato greci vanno alle stelle, e si produce un effetto domino: tutti i paesi considerabili a rischio – per motivi diversi – vengono prima o poi investiti dalla speculazione (sovente trasfigurata in “severità disciplinatrice dei mercati”), in quanto la Bce dà ai mercati il messaggio che non interverrà a loro difesa.

Il risultato per quanto riguarda l’Italia, in termini di differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato italiani a 10 anni e dei loro omologhi tedeschi, è raffigurato nel grafico seguente.

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È stato posto in luce come l’appartenenza stessa alla moneta unica abbia comportato per i paesi membri una minore flessibilità di risposta alla crisi rispetto a paesi che non ne fanno parte (De Grauwe, per esempio, ha confrontato le diverse performance post-crisi di Spagna e Regno Unito):[14] in effetti, è evidente che nessun paese membro dell’Eurozona può effettuare una politica monetaria indipendente, abbassare i tassi in maniera perfettamente appropriata alle condizioni della propria economia, né svalutare.

Ma c’è di più. La gestione della crisi è stata connotata da 3 gravissimi errori:

1) il rifiuto di considerare la realtà dei meccanismi alla base della divergenza tra paesi;

2) l’interpretazione “morale” delle divergenze nell’eurozona (i paesi in deficit sono sconsiderati, i paesi in avanzo sono virtuosi);

3) la centralità attribuita al debito pubblico, anziché agli squilibri della bilancia dei pagamenti.

Le conseguenze di questo approccio sono molto serie:

1) il primo errore impedisce di affrontare i nodi strutturali del problema (arrivando sino a negare che gli avanzi eccessivi, pur sanzionabili in base al Patto per la stabilità e la crescita del 1999, siano un problema);

2) il secondo errore comporta il tentativo di realizzare un riequilibrio tra le economie tutto a spese dei debitori (l’aggiustamento è chiesto solo a loro, e non anche ai paesi creditori);

3) il terzo errore, infine, ha per conseguenza l’imposizione ai paesi in crisi politiche pro-cicliche (di restrizione fiscale) che peggiorano la situazione.

Il risultato possiamo osservarlo confrontando le ben differenti performance di Italia e Germania in termini di crescita dopo l’inizio della crisi.

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Quanto alle politiche monetarie adottate al fine di superare la crisi dalla BCE, esse sono state tardive e insufficienti.

Sono state tardive, e non per caso: il ritardo serviva a imporre “la disciplina dei mercati finanziari”. Per quanto riguarda il caso italiano, lo stesso Luigi Zingales ne ha parlato in termini molto duri: “It was a form of economic waterboarding that has left the Italian economy devastated and Italian voters legitimately angry at the European institutions”.

Esse sono state utili a impedire la fine dell’euro – e in effetti sono state adottate non prima di quando tale prospettiva ha cominciato a profilarsi seriamente all’orizzonte -, ma al tempo stesso sono state insufficienti a risolvere la crisi. Questo per diversi motivi: perché la BCE non è (non può essere ai sensi del Trattato di Maastricht) garante di ultima istanza dei debiti sovrani e perché l’effetto delle politiche monetarie espansive, convenzionali (diminuzione dei tassi d’interesse) e non convenzionali (acquisto titoli e assets vari sui mercati finanziari) è stato neutralizzato da politiche di bilancio restrittive (austerità e controllo dei bilanci pubblici).

Ulteriori misure di integrazione, dichiaratamente nate per combattere la crisi, hanno avuto effetti perversi soprattutto per l’Italia: un caso emblematico è rappresentato al riguardo dalla cosiddetta “unione bancaria europea”, assolutamente squilibrata e asimmetrica: un’unione nata per eliminare la balcanizzazione finanziaria, ma venuta alla luce senza la sua unica componente in grado di contrastarla. In estrema sintesi, l’unione bancaria europea è caratterizzata:

1) Quanto al primo pilastro (vigilanza unica), da una forte asimmetria in termini di percentuale di copertura dei diversi sistemi bancari nazionali da parte della vigilanza europea; nel grafico che segue è rappresentata la quota degli attivi bancari sotto diretta supervisione Bce, dopo la creazione dei due gruppi del credito cooperativo.

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2) quanto al secondo pilastro (meccanismo di risoluzione unico: il bail-in), esso sconta l’asimmetria delle condizioni di partenza (come si può vedere dal grafico sottostante, nel 2013, quando si negozia l’unione bancaria, praticamente tutti i paesi dell’eurozona, tranne il nostro, avevano effettuato massicci salvataggi pubblici [bailouts] delle loro banche).

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Nota: * incluse le garanzie.

Fonte: Commissione Europea, DG Concorrenza, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16 agosto 2013.

A questo vanno aggiunti:

a) lo strabismo della vigilanza europea, che ha considerato assolutamente prioritario il controllo del rischio di credito, mentre ha trascurato il rischio di mercato, portatore di potenziale instabilità ben maggiore in termini di rischio sistemico.

Nel grafico sotto si può vedere come gli aggiustamenti richiesti a fronte dell’Asset Quality Review della Bce si siano concentrati soprattutto sulle attività creditizie.

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Questo grafico evidenzia invece l’entità dei derivati detenuti in bilancio nel 2017 in percentuale del totale attivo, segnalando come in particolare le banche di Francia e Germania siano portatrici di un rischio di mercato molto elevato, in relazione al quale la vigilanza BCE ha manifestato ben minore attenzione di quella esercitata sul rischio di credito;

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b) decisioni sbagliate della Commissione Europea, come quella di proibire, nel novembre 2015, l’intervento del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi per salvare alcune piccole banche italiane (considerandolo erroneamente un “aiuto di Stato”).

Il combinato disposto dell’asimmetria nelle condizioni di partenza dei vari sistemi al momento dell’ingresso nell’unione bancaria europea (vedi sopra punto 2)) e di queste decisioni hanno trasformato l’entrata in vigore del bail-in, nel gennaio 2016, in un vero e proprio tsunami che in meno di 3 mesi ha cancellato il 35% della capitalizzazione di borsa delle banche italiane.

3) quanto al terzo pilastro, ossia la garanzia (poi si è detto “assicurazione”) europea dei depositi, esso è semplicemente assente, contrariamente a quanto originariamente previsto.

Senza l’assicurazione europea sui depositi, l’Unione bancaria è un tavolino a due zampe, con quello che ne consegue in termini di stabilità. Ma, soprattutto, essa ha perso il suo originario significato. O, per usare le parole dell’ex direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, “l’effettiva attuazione del progetto ha preso una direzione diversa”[17] da quella originaria.

Seguiamo l’argomentazione di Salvatore Rossi:

“In sostanza, le banche sono divenute europee solo in un senso, ovvero in quanto vigilate e sottoposte a risoluzione a livello europeo. Il circolo vizioso tra settore bancario ed emittenti sovrani non è stato spezzato, tuttavia alle banche è stata imposta una camicia di forza volta a garantire che, in caso di fuga dai titoli di Stato emessi da un sovrano, le banche di quel paese non verranno salvate dai contribuenti, di quello stesso paese o di altri. In termini ancora più espliciti, a un contribuente tedesco non si potrà mai chiedere di finanziare il salvataggio di una banca italiana in crisi per il peso, nel proprio bilancio, di titoli di Stato italiani in rapida discesa sui mercati. In un caso simile, sarebbero i creditori della banca, prevalentemente italiani, a farsene carico.”[18]

Non si è troppo malevoli se si traduce così il risultato: la funzione originaria e dichiarata dell’unione bancaria europea era quella di ridurre la frammentazione/balcanizzazione finanziaria dell’Europa intervenuta con la crisi (e i conseguenti rischi in termini di stabilità e tenuta della moneta unica); quella effettiva è consistita nel prendere in ostaggio le banche italiane, sulle quali (nel quadro istituzionale attuale) ogni incremento significativo dello spread sui titoli di Stato italiani determina pesanti ripercussioni in termini di conto economico e di capitale (è il film che abbiamo visto nel maggio e nel settembre 2018).

A questo proposito consentitemi di enunciare un vero e proprio paradosso dei dibattiti sull’euro.

Nel nostro paese è molto diffusa, anche in ambienti che si credono progressisti (anzi, soprattutto in quelli), una concezione apocalittica delle prospettive legate alla possibile fine della moneta unica, e addirittura la convinzione che la fine della moneta unica sia impossibile a priori. A Bruxelles e Francoforte, invece, si crede tanto poco in tutto questo che si cerca di sventare l’eventualità della fine della moneta unica: in particolare, rendendo una possibile “uscita” più difficile e onerosa.

Così, mentre in Italia illustri studiosi, ignorando la lex monetae contemplata anche dal nostro codice civile, anni fa si affannavano a spiegare che in caso di “uscita” il debito pubblico avrebbe dovuto essere ripagato in euro, in sede di creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità venivano previste clausole punitive per le nuove emissioni di debito pubblico, precisamente per limitare in concreto l’efficacia della lex monetae.

L’altra contromisura assunta riguarda gli effetti dell’unione bancaria sulle banche italiane, in particolare impedendo in radice la possibilità di un rifinanziamento pubblico delle banche italiane, sottraendole alla vigilanza nazionale e sottomettendole alle nuove regole del bail-in (che comportano l’esclusione quasi assoluta del salvataggio pubblico delle banche, che anche ove possibile è legato a condizionalità molto stringenti). Questo ovviamente rende il legame tra rischio paese e rischio banche – precisamente il legame che in teoria l’unione bancaria avrebbe dovuto recidere! – tanto più pericoloso: perché rende forti rialzi dello spread una immediata minaccia per la stabilità delle banche italiane che li hanno in portafoglio.

È nel contesto di quanto sopra che va valutato quanto sappiamo su ciò che è accaduto dopo il 4 marzo.

Occorre ancora un elemento preliminare, ma è così noto che mi limito a enunciarlo: a fare l’esecutore materiale di tutto quanto abbiamo visto sopra, insomma gli artefici del “successo catastrofico” di cui ho dato qualche cifra, sono stati la sinistra postcomunista e il centro postdemocristiano, dal 2008 plasticamente riunitisi in un unico partito: sono loro, in particolare, i principali responsabili del governo Monti, che ci ha lasciato in eredità non soltanto la crisi peggiore dall’Unità d’Italia, ma anche – e precisamente per questo – un incremento del rapporto debito/pil del 13% (in termini percentuali, è poco meno dell’entità dell’intero decremento del debito tra il 1994 e il 2008!).

Dei governi successivi non c’è molto da dire, ad eccezione dell’iniziale tentativo di sfilarsi di Matteo Renzi dalla logica di una supina accettazione dei diktat europei, tentativo prontamente normalizzato: lo provano il jobs act, l’incapacità di capire la necessità di sospendere l’entrata in vigore dell’unione bancaria (pessimamente negoziata dal precedente governo Letta) e la conseguente crisi bancaria di inizio 2016. Questa crisi è stata tutt’altro che estranea al declino della stella renziana, poi definitamente consumatosi a causa del drammatico errore consistente nel referendum costituzionale (anch’esso motivato con la volontà di esibire il trofeo di tale “riforma strutturale” nel consesso europeo). Dopo la parentesi dimenticabile del governo Gentiloni, siamo così al 4 marzo.

1.4. Dopo il 4 marzo 2018

Il voto del 4 marzo esprime un rifiuto delle politiche dei passati governi.

Nel giugno 2018 nasce il governo giallo-verde. Esso riunisce 2 partiti che, per quanto differenti tra loro, sono stati entrambi premiati dal voto in quanto portatori – a giudizio dei loro elettori – di una rottura con le prassi dei governi precedenti, anche in rapporto all’atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea.

È subito evidente un tentativo di “normalizzazione” di questa compagine, attraverso i ministri di quello che è stato definito come il “terzo partito”: il partito del presidente della Repubblica (che nella formazione del governo ha esercitato le proprie prerogative ai limiti – e forse oltre – di quanto previsto dalla Costituzione). Questo è immediatamente chiaro per quanto riguarda il Ministro delle Finanze Tria – ed è oggi chiaro per quanto riguarda lo stesso presidente del Consiglio, Conte.

L’approccio del governo è comunque più pugnace di quello dei governi precedenti, e la stessa manovra economica proposta, imperniata su “reddito di cittadinanza” e “quota 100”, è sensata: in presenza di un evidente rallentamento del ciclo e di un ormai cronico insufficiente contributo della domanda interna alla crescita, è evidente la ratio di una manovra basata sulla spinta ai consumi; la stessa obiezione tradizionale, “spesa pubblica sì, ma va fatta per investimenti”, non tiene conto (intenzionalmente o per ignoranza) di una circostanza fondamentale: il ritorno in termini di crescita della spesa per investimenti è più lenta, e quindi nulla avrebbe garantito un trattamento di maggior favore per essi da parte della Commissione Europea; del resto, in base ai calcoli di quest’ultima – condotti in base a una metodologia opinabilissima, imperniata sullo pseudoconcetto di “output gap” -, l’Italia è finita in un equilibrio di sottoccupazione e può tranquillamente restarci.

La risposta alla manovra del governo è di assoluta chiusura da parte della Commissione Europea, a cominciare dal commissario Moscovici (che dopo qualche mese aprirà la non fortunatissima campagna elettorale per le elezioni europee dell’attuale ministro delle finanze designato).

Ma c’è di peggio: importanti esponenti istituzionali, in visita alla City di Londra, dichiarano di “sperare nei mercati”, e il commissario Oettinger si dice fiducioso che “i mercati insegneranno agli Italiani come votare” (in seguito si accontenterà che abbiano “imparato a votare” i parlamentari italiani, e per incentivarli dirà – lo ha fatto nei giorni scorsi – che a Bruxelles “si farà il possibile per facilitare il lavoro del nuovo governo italiano, quando entrerà in carica”).

Il bastone dei mercati comincia ad agire e fa danni, in particolare sul settore bancario (i motivi li ho accennati sopra).

Olivier Blanchard (a suo tempo uno dei responsabili del FMI per il disastro greco), con ammirevole tempismo, escogita una nuova teoria: l’espansione fiscale restrittiva. In sintesi: l’effetto positivo di una manovra espansiva può essere più che bilanciato dall’aumento degli interessi richiesti dagli investitori per acquistare i titoli di Stato del paese in questione. La teoria è corretta. Il problema è la catena causale: è infatti evidente che le pretese degli investitori aumenteranno quanto più le istituzioni europee avranno assunto un atteggiamento rigido nei confronti del governo “colpevole” di attuare misure espansive.

Il governo scende a più miti consigli, e riduce il deficit contemplato dalla manovra al 2%.

Nel frattempo Tria e Conte blindano (con la lettera del 2 luglio 2019, scritta per chiudere una procedura d’infrazione, aperta da una Commissione uscente, che non sarebbe comunque mai andata avanti alla luce della frenata dell’economia tedesca) la manovra 2020 in senso restrittivo e negoziano (cioè non negoziano) una riforma a noi sfavorevole dell’ESM, che una volta approvata renderà assai onerosa (per davvero) un’uscita dalla moneta unica – e quindi renderà concretamente possibile una ristrutturazione del debito italiano restando nell’eurozona. Tutto questo rifiutandosi di fatto di rendere partecipe il parlamento preventivamente dei loro orientamenti negoziali, in violazione di una legge del 2012 che per ironia della sorte reca la firma di un loro collega nel primo governo Conte, Enzo Moavero. La stessa lettera del 2 luglio diverrà pubblica a quasi due mesi di distanza da quando è stata scritta.

Ad agosto Salvini apre la crisi.

Dalla “Repubblica” del 7 settembre sappiamo che nei primi giorni di agosto il presidente del Consiglio in carica Conte incontra Visco per ricevere i suoi consigli… sul successivo esecutivo.

L’esito della crisi è noto, come pure le inusitate aperture della Commissione Europea (destinate con tutta probabilità a restare puramente verbali).

Frattanto gli editorialisti economici dei nostri principali quotidiani, da apocalittici, diventano improvvisamente integrati: lo stesso Federico Fubini che ricordiamo prospettare sciagure bibliche e procedure d’infrazione inesistenti sul “Corriere della sera” (smentito in 4 casi dal corrispondente a Bruxelles del suo stesso quotidiano) ora chiede al governo di fare più deficit e si dice confidente nell’apertura e benevolenza delle istituzioni europee.

Più cauto, Claudio Tito su “Repubblica” ammonisce che “la concreta chance che la nuova Commissione europea accordi all’Italia una consistente dose di flessibilità sui conti del prossimo anno sarà subordinata all’impostazione di una comunicazione sotto tono. Anche perché gli obiettivi di bilancio del nostro paese sono talmente complicati da renderli raggiungibili solo con la collaborazione di Bruxelles. Va tenuto presente, ad esempio, che nell’ultima lettera inviata da Conte e Tria alla Commissione – quella scritta in extremis per evitare la procedura d’infrazione – l’Italia si era impegnata ad una ‘ampia adesione al patto di Stabilità e crescita’. L’obiettivo del 2 per cento nel rapporto deficit-pil fissato nell’ultimo Def appare già fin troppo permissivo. Il vincolo potrebbe risultare più stretto. E se poi si considera la partenza ad handicap determinata dalle clausole di salvaguardia per 23 miliardi e i tanti indizi – confermati dai dati dell’economia tedesca – di una ulteriore fase recessiva continentale, la cinghia rischia di comprimersi ulteriormente“.

Questo è quello che sappiamo.

2. Che fare?

Personalmente rispetto la posizione di cauta (o benevola?) attesa di Stefano Fassina nei confronti del governo giallo-rosé, ma non è la mia.

Per pochi semplici motivi:

Questo è un governo di normalizzazione, è la vittoria degli Oettinger e dei Moscovici.

Questo è il governo della Commissione Europea.

È anche un governo che nasce con una tara fondamentale: il collante fondamentale tra i partiti di governo non è programmatico, ma è la paura delle elezioni. Questo scava un ulteriore solco tra chi se ne fa promotore e una parte rilevante (ritengo tendenzialmente maggioritaria) del popolo italiano.

È un solco che va ad aggiungersi a quelli già scavati dai governi che si sono succeduti tra il 2011 e il 2018. È un’altra medaglia da aggiungere al palmares di una “sinistra” che dagli anni Novanta in poi si è intestata tutto quanto previsto dal manuale delle giovani marmotte liberiste: dalle privatizzazioni all’attacco ai diritti del lavoro, dal ridimensionamento dello Stato sociale all’attacco alla scuola pubblica, e così via.

Non esiste futuro per una sinistra che appoggi questo governo.

Una sinistra che fa questo lascia alla destra, e solo a lei, una prateria sconfinata, nella quale questa pascolerà. Se poi questa destra avrà l’intelligenza (che sinora grazie ai Zaia è mancata) di diventare il vero “partito della nazione” – quello di cui ci parlava Alfredo Reichlin nelle sue ultime riflessioni –, allora davvero le prospettive politiche in questo paese saranno suggellate per un lungo periodo.

Questa è la verità. Che a volte può dare fastidio, ma è sempre “rivoluzionaria”. E questo non lo ha detto Nietzsche.

 

Articolo originale e completo delle note a questo LINK

15 errori fatali del fondamentalismo finanziario

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Articolo tratto da Il pensiero economico dei giganti dell’economia eterodossa

Altrettanto fallaci sono le implicazioni secondo cui ciò che è possibile o auspicabile per il singolo individuo sia ugualmente possibile o auspicabile per tutti coloro che lo desidererebbero o per l’economia nel suo complesso.

E spesso l’analisi sembra essere basata sul presupposto che la produzione economica futura sia quasi interamente determinata da forze economiche inesorabili indipendenti dalle politiche del governo in modo che l’utilizzo di più risorse per uno scopo inevitabilmente le sottrae ad un altro. Questo potrebbe essere giustificabile in un’economia della piena occupazione, o potrebbe essere avvalorato in un certo senso postulando che il Consiglio della Federal Reserve voglia perseverare e riuscire in una politica di contenimento della disoccupazione strettamente ad un tasso fisso di “non accelerazione dell’inflazione” o tasso “naturale”. Ma nelle condizioni attuali questo risultato non è né probabile né auspicabile.

Alcuni degli errori che derivano da tali modi di pensare sono affrontati di seguito. Nel loro insieme la loro accettazione sta portando a politiche che nella migliore delle ipotesi ci stanno tenendo in stagnazione economica con tassi di disoccupazione generale bloccati in un range del 5-6 per cento. Questo è già abbastanza grave semplicemente in termini di perdita del nostro potenziale di produzione dal 10% al 15%, anche se condiviso equamente, ma quando si traduce in un tasso di disoccupazione del 10%, 20%, e 40% tra i gruppi svantaggiati diventano seri i grandi danni in termini di povertà, disgregazione familiare, dispersione scolastica e abbandono, illegittimità, uso di droghe e criminalità. E se le politiche in questione dovessero essere pienamente realizzate in termini di un “pareggio di bilancio”, potremmo anche cadere in una grave depressione.

 

FALLACIA 1

I deficit sono considerati come una rappresentazione di spesa dissoluta peccaminosa a scapito delle generazioni future che saranno lasciate con una quantità minore di capitale investito. Questo errore sembra derivare da una falsa analogia con i prestiti da parte dei privati.

La realtà attuale è quasi l’esatto contrario. I deficit aggiungono reddito netto disponibile per le persone fisiche nella misura in cui gli esborsi governativi, che costituiscono reddito per i beneficiari, superano quelli sottratti dal reddito disponibile da imposte, tasse e altri oneri. Questo potere d’acquisto aggiuntivo, se speso, offre ai mercati una domanda aggiuntiva, inducendo i produttori ad investire in capacità produttiva addizionale che farà parte del patrimonio reale lasciato al futuro. Questo si aggiunge a qualsiasi investimento pubblico fatto in infrastrutture, istruzione, ricerca, e simili. I deficit grandi, sufficienti a recuperare il risparmio da un prodotto interno lordo in crescita (PIL) superiore a quello che può essere recuperato dalla ricerca del profitto in investimenti privati, non sono un peccato per l’economica, ma una necessità economica. Disavanzi in eccesso crescenti conseguenti alla crescita massima realizzabile nella produzione reale potrebbero infatti causare problemi, ma in nessuna parte siamo vicini a quel livello.

Anche l’analogia stessa è viziata. Se General Motors, AT&T e le singole famiglie avessero avuto necessità di equilibrare i loro bilanci nel modo in cui essa è stata applicata al governo federale non ci sarebbero obbligazioni societarie, mutui, prestiti bancari e molte meno automobili, telefoni, e case.

 

FALLACIA 2

Si afferma che è necessario sollecitare o incentivare gli individui a cercare di risparmiare di più per stimolare gli investimenti e la crescita economica. Ciò sembra derivare dal presupposto di un prodotto aggregato immutato in modo tale che ciò che non viene utilizzato per il consumo sarà necessariamente e automaticamente dedicato alla formazione del capitale.

In realtà, anche in questo caso, la verità è l’esatto contrario. In un’economia monetaria, per la maggior parte degli individui la decisione di cercare di risparmiare di più significa spendere meno; minore spesa di un risparmiatore significa minore reddito e meno risparmio per i venditori e produttori e il risparmio aggregato non è aumentato ma diminuito. A loro volta i venditori riducono i loro acquisti e il reddito nazionale si riduce e con esso il risparmio nazionale. Un dato individuo può infatti riuscire ad aumentare il proprio risparmio ma solo a spese del reddito e il risparmio di altri individui.

 

FALLACIA 3

Il debito pubblico dovrebbe “spiazzare” gli investimenti privati.

La realtà attuale è che, al contrario, la spesa dei fondi presi in prestito (a differenza della spesa delle entrate fiscali) genera reddito aggiuntivo disponibile, aumenta la domanda di prodotti del settore privato e rende gli investimenti privati più redditizi. Finché ci sono un sacco di risorse inutilizzate in giro e le autorità monetarie si comportano in maniera sensibile (invece di cercare di contrastare l’effetto presumibilmente inflazionistico del deficit), quelli con una prospettiva di investimento redditizio possono essere abilitati ad ottenere il finanziamenti. In queste circostanze, ogni dollaro aggiuntivo di deficit nel medio-lungo termine produce due o più dollari supplementari di investimenti privati. Il capitale creato è un incremento di ricchezza per qualcuno e il risparmio “ipso facto” di qualcun altro. “L’offerta che crea la propria domanda” non funziona più non appena alcuni dei redditi generati dall’offerta vengono risparmiati, ma gli investimenti creano risparmi di pari importo, e anche oltre. Qualsiasi spiazzamento che si potrebbe verificare sarebbe il risultato, non della sottostante realtà economica, ma di inappropriate reazioni restrittive da parte dell’autorità monetaria come risposta al deficit.

 

FALLACIA 4

L’inflazione è chiamata la “tassa più crudele”. La percezione sembra essere che se solo la crescita dei prezzi si potesse fermare, il proprio reddito potrebbe migliorare oltre, senza tener conto delle conseguenze sul reddito.

La realtà attuale: l’elemento fiscale nell’inflazione attesa in termini di guadagno per il governo e perdite per i detentori di moneta e titoli di Stato si limita alla riduzione del valore in termini reali della moneta non fruttifera, (equivalente all’aumento del tasso di interesse di risparmio sui prestiti senza interessi rispetto a quello che sarebbe stato senza inflazione), più il guadagno dall’incremento dell’inflazione oltre ciò che è stato previsto nel momento in cui si è stabilito il tasso di interesse sul debito. D’altra parte, una riduzione del tasso di inflazione al di sotto di quello previsto in precedenza si tradurrebbe in una sovvenzione per i titolari di debito pubblico a lungo termine e un corrispondente aumento dell’impatto reale del debito sul fisco .

Nei regimi precedenti in cui le normative vietavano l’accredito degli interessi sui depositi a vista, l’utile da signoraggio su questi saldi che veniva rafforzato dall’inflazione andava alle banche, cosa che rifletteva la perdita dei depositanti in termini di potere d’acquisto, con la conseguenza di indurre alcuni vantaggi per i clienti in termini di servizi senza costi. In un’economia in cui la maggior parte delle transazioni avvengono in termini di carte di credito e conti bancari rispetto al quale l’interesse può essere addebitato o accreditato, l’onere sarà insignificante per la maggior parte degli individui, limitatamente alla perdita di interesse sulla moneta in circolazione. La maggior parte del guadagno per il governo deriverà da quelli che utilizzano grandi quantità di valuta per l’evasione fiscale o per l’esercizio delle loro attività illecite. Ulteriori oneri per quei pochi che tengono il denaro sotto il materasso o in vasi di biscotto.

La principale problematica dell’inflazione, infatti, non deriva dagli effetti dell’inflazione stessa, ma dalla disoccupazione prodotta dai tentativi inappropriati per controllarla. In realtà, l’accelerazione imprevista di inflazione può ridurre il disavanzo reale relativo al disavanzo nominale riducendo il valore reale del debito a lungo termine. Se viene perseguita una politica di contenimento del deficit di bilancio nominale questo è suscettibile di provocare una continua disoccupazione eccessiva a causa della riduzione della domanda effettiva. La risposta non è quella di diminuire il disavanzo nominale per controllare l’inflazione con un aumento della disoccupazione, ma piuttosto di aumentare il disavanzo nominale per mantenere il deficit reale, controllando l’inflazione, se necessario, con mezzi diretti che non comportano un aumento della disoccupazione.

 

Fallacia 5

“Una tendenza cronica verso l’inflazione è un riflesso del vivere al di sopra dei propri mezzi”. Alfred Kahn, citato in Cornell ’93, numero estivo.

Realtà: l’unica volta che si può dire di aver davvero vissuto al di sopra dei nostri mezzi è stato in tempo di guerra, quando il capitale era stato distrutto e sotto dimensionato. Non abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi nemmeno in tempo di pace sin dal 1926, quando si stima che la disoccupazione, secondo la definizione di oggi, sia scesa a circa l’1,5 %. Non si è raggiunto questo livello se non al culmine della seconda guerra mondiale.

L’inflazione si verifica quando i venditori aumentano i prezzi; possono farlo con profitto quando le forze della concorrenza sono indebolite dalla differenziazione dei prodotti, reale e fittizia, dalla pubblicità ingannevole, dall’offuscamento di espedienti di vendita e di pacchetti, fusioni e acquisizioni, e dalla crescente importanza dei servizi ausiliari, dai segreti commerciali, dai brevetti, dai diritti d’autore, dalle economie di scala, dalle spese generali e dai costi di avviamento. L’inflazione può e deve verificarsi nel mezzo di risorse sottoutilizzate, e non dovrebbe verificarsi anche nel caso in cui consumiamo il nostro capitale attraverso la mancata manutenzione e sostituzione, consumando più di quanto produciamo.

 

FALLACIA 6

Si ritiene necessario mantenere la disoccupazione a un livello “di non accelerazione dell’inflazione” (“NAIRU”) nell’intervallo compreso tra il 4 % e il 6 % se l’inflazione è da mantenere al di sotto di un aumento inaccettabile.

Attualmente il tasso di disoccupazione misurato ufficialmente è sceso al 5,1 %, mentre il Congressional Budget Office (CBO) ha stabilito il NAIRU per il 1964 al 6,0 %, dopo aver oscillato tra il 5,5 e il 6,3 dal 1958. Le recenti riserve CBO stabilivano una disoccupazione stabile al 6,0 % fino al 2005, con l’inflazione dell’indice dei prezzi al consumo urbani abbastanza costante a circa il 3,0 % (Economic and Budget Outlook, maggio 1996, pp XV, XVI, 2, 3).

Questa può essere una previsione piuttosto ottimistica dei risultati che si possono attendere in base alle tendenze attuali, ma come obiettivo è semplicemente intollerabile. Mentre anche il 5% di disoccupazione potrebbe essere appena accettabile se ciò indica un periodo obbligatorio extra di due settimane di congedo non retribuito all’anno per tutti, è del tutto inaccettabile quando significa 10%, 20% e 40% di disoccupazione tra i gruppi svantaggiati, con gravi conseguenze in termini di povertà, perdita di casa, rotture familiari , tossicodipendenze e criminalità. Il malessere che pervade le nostre città può essere attribuibile in larga misura al fatto che per la prima volta nella nostra storia, un’intera generazione e oltre è cresciuta senza provare la ragionevole piena occupazione, nemmeno per breve tempo. Al contrario, mentre la maggior parte degli altri paesi industrializzati stanno vivendo più alti tassi di disoccupazione rispetto agli Stati Uniti, hanno quasi tutti avuto periodi relativamente recenti di quasi piena occupazione. Programmi di sostegno contro la disoccupazione e altri programmi di “welfare” sono stati anche molto più generosi in modo che le conseguenze sociologiche sono state molto meno demoralizzanti.

Il presupposto di fondo che ci sia un NAIRU esogeno che impone un vincolo ineludibile sulle possibilità macroeconomiche è aperto a gravi questioni per ragioni sia storiche che analitiche. Storicamente, gli Stati Uniti hanno registrato un tasso di disoccupazione dell’1,8% nel 1926 nel suo complesso, con un livello dei prezzi in calo, semmai. La Germania dell’Ovest ha goduto di un tasso di disoccupazione di circa lo 0,6% nel corso degli anni intorno al 1960 e la maggior parte dei paesi sviluppati hanno goduto di episodi di disoccupazione inferiori al 2% senza gravi inflazioni. Così un NAIRU, se esiste, deve essere considerato come molto variabile nel tempo e nel luogo. Non è chiaro se le stime del NAIRU non siano state contaminate dal fallimento nello stabilire un possibile impatto dell’inflazione sulla disoccupazione oppure l’impatto della disoccupazione sull’inflazione. Una interpretazione marxista della insistenza su un NAIRU potrebbe essere come cavallo di troia per arruolare il timore di inflazione per giustificare il mantenimento di un “esercito di riserva di disoccupati”, presumibilmente per evitare che i salari avviino una “spirale prezzi-salari”. Nessuno sente mai di una “spirale affitto-prezzo”, o una “spirale di interesse-prezzo”, anche se questi costi sono anche da considerare nella determinazione dei prezzi. In effetti, quando la FRB alza i tassi di interesse nel tentativo di scongiurare l’inflazione, l’aumento dei costi di interesse per i commercianti potrebbe innescare un piccolo aumento di prezzo.

Analiticamente, sarebbe più razionale aspettarsi un tasso massimo di riduzione della disoccupazione che non accelera l’inflazione ( NIARRU ), tale che se venisse fatto un tentativo per procedere più rapidamente ad un maggiore riciclo di eccesso di risparmio in potere d’acquisto attraverso i deficit di governo, i prezzi comincerebbero a salire più rapidamente di quanto fosse stato generalmente previsto. Ciò si potrebbe verificare a causa dell’incapacità dell’offerta di tenere il passo con l’aumento della domanda, dando luogo a carenze e la dissipando una parte della maggiore domanda nei più rapidi aumenti dei prezzi. Questo NIARRU potrebbe essere determinato dai limiti dei tassi a cui il lavoro può essere assunto e messo al lavoro per soddisfare l’aumento previsto della domanda, e, forse, dai ritardi nella comprensione che la domanda aumenterà, e anche dal creare nuove strutture produttive, installarle e portarle a regime. L’ultimo vincolo tecnologico per impiegare i disoccupati più rapidamente nel settore privato può risiedere in una capacità limitata nei settori dei beni strumentali quali l’edilizia, nel cemento e nelle macchine utensili.

In ogni caso molto dipenderà dal grado di fiducia che può essere generato nell’aumento proposto nella domanda. Potrebbe essere saggio iniziare lentamente, con una riduzione del tasso di disoccupazione che potrebbe essere dello 0,5% il primo anno e aumentarlo fino all’1% all’anno, man mano che si guadagna la fiducia. Forse il tasso di crescita dovrebbe poi essere ridotto un po’ man mano che ci si avvicina alla piena occupazione, lasciando il tempo necessario di abbinare ai lavoratori i posti vacanti data la crescente difficoltà. E’ soprattutto nelle fasi più avanzate dell’approccio alla piena occupazione che la formazione e il miglioramento dell’organizzazione del mercato del lavoro può diventare necessaria. A fronte di una politica di mantenimento di un NAIRU fisso, una “workfare” aiuta a riqualificare ed assistere l’insieme dei clienti del welfare nel crudele gioco delle sedie musicali.

Tale NIARRU rischia di rivelarsi alquanto volatile e difficile da prevedere e in ogni caso potrebbe essere opportuno spingere per la piena occupazione un po’ più rapidamente di quanto sarebbe consentito da un NIARRU inalterato. Ciò richiederebbe l’introduzione di alcuni nuovi strumenti di controllo dell’inflazione che non richiedono disoccupazione per poter essere efficaci. Anzi, se vogliamo controllare le tre principali dimensioni macroeconomiche dell’economia, vale a dire il tasso di inflazione, il tasso di disoccupazione e il tasso di crescita, è necessario un terzo controllo che ragionevolmente non collimerà nei suoi effetti con quelli di una politica fiscale che opera attraverso la generazione del reddito disponibile da un lato e la politica monetaria che opera attraverso i tassi di interesse dall’altro.

Ciò che può essere necessario è un metodo per controllare direttamente l’inflazione che non interferisca con le regolazioni del libero mercato dei prezzi relativi o che non si affidi alla disoccupazione per tenere sotto controllo l’inflazione. Senza un tale controllo, i cambiamenti imprevisti del tasso di inflazione, sia in positivo che in negativo, continueranno ad affliggere l’economia e rendere difficile la pianificazione per gli investimenti. Cercare di controllare l’economia nelle tre principali dimensioni macroeconomiche con solo due strumenti è come cercare di volare con un aereo solo con elevatore e timone, ma senza alettoni; con tempo atmosferico calmo e con un diedro sufficiente si può gestire l’aereo se i giri sono fatti molto cautamente, ma cercare di atterrare controvento è come produrre un incidente.

Una terza possibile misura di controllo sarebbe un sistema di diritti negoziabili di valore aggiunto, (o “gross markups”) emessi da imprese che godono di responsabilità limitata, proporzionali ai fattori primi impiegati, come il lavoro e il capitale, con un valore nominale complessivo pari al valore di mercato complessivo della produzione ad un livello generale dei prezzi programmato. Le imprese che incontrano un mercato particolarmente favorevole potrebbero realizzare un livello più alto di markup rispetto al normale solo acquistando diritti da aziende posizionate meno favorevolmente. Il valore di mercato dei diritti varierebbe automaticamente in modo da costituire la giusta pressione al ribasso sui margini di profitto per produrre il livello generale dei prezzi desiderato. Una adeguata sanzione dovrebbe essere riscossa su qualsiasi impresa che abbia avuto un valore aggiunto superiore a quello dei titoli posseduti.

In ogni caso è importante ricordare che le divergenze nei tassi di inflazione verso l’alto o verso il basso, da quanto previsto in precedenza, producono solo una redistribuzione arbitraria di un dato prodotto totale, pari nella peggiore delle ipotesi a legittimare l’appropriazione indebita, a meno che in effetti queste imprevedibili variazioni siano così estreme e rapide da distruggere l’utilità della moneta come mezzo di scambio. La disoccupazione, dall’altro, riduce il prodotto totale da ripartire; nella migliore delle ipotesi è equivalente al vandalismo, e quando contribuisce al crimine, diventa l’equivalente di incendio doloso omicida. Negli Stati Uniti la diffusa disponibilità di sportelli automatici nei supermercati e in altri posti avrebbe reso il “costo delle scarpe in pelle” da un tasso di inflazione alto ma prevedibile ad abbastanza trascurabile.

 

FALLACIA 7

Molti professano la fede che si basa sul fatto che se solo i governi dovessero smettere di intromettersi ed equilibrare i propri bilanci, i liberi mercati dei capitali dovrebbero portare prosperità nei loro periodi migliori, eventualmente con l’aiuto del “suono” della politica monetaria. Si presume che ci sia un meccanismo di mercato attraverso il quale i tassi di interesse si adattano prontamente e automaticamente per equiparare il risparmio e gli investimenti previsti con una modalità analoga al mercato con la quale il prezzo delle patate equilibra domanda e offerta. In realtà tale meccanismo di mercato non esiste; se un equilibrio di prosperità deve essere raggiunto è necessario un intervento deliberato da parte delle autorità monetarie.

Nel periodo di massimo splendore della rivoluzione industriale probabilmente sarebbe stato possibile per le autorità monetarie agire per regolare i tassi di interesse per equiparare il risparmio e gli investimenti aggregati previsti con i livelli di crescita del PIL in modo tale da produrre e mantenere la piena occupazione. In generale, tuttavia, le autorità monetarie non sono riuscite a riconoscere il bisogno di tali azioni e invece hanno perseguito obiettivi come come il mantenimento del gold standard, o il valore della propria valuta in termini di valuta estera, o il valore delle attività finanziarie nei mercati dei capitali. Il risultato è stato che di solito gli adeguamenti agli shock hanno avuto luogo lentamente e dolorosamente attraverso la disoccupazione e il ciclo economico.

Realtà attuale: è passato molto tempo, però, da quando anche i tassi di interesse più bassi gestibili dai mercati dei capitali erano in grado di stimolare la formazione di sufficiente capitale netto motivato dai profitti per assorbire e riciclare nel reddito, durante ogni lungo periodo, i risparmi che gli individui desiderano mettere da parte dal livello di prosperità del reddito personale disponibile. Le tendenze della tecnologia, dei modelli di domanda e della demografia hanno creato un divario tra gli importi per i quali il settore privato può trovare proficuo l’investimento in strutture produttive e le sempre più grandi quantità di individui cercano di accumulare per la pensione e per altri scopi. Questo divario è diventato troppo grande per essere compensato attraverso la regolazione del mercato monetario o dei capitali.

Da un lato la prevalenza di innovazioni nel risparmio (di capitale), riscontrabili in forma estrema nel settore delle telecomunicazioni e dell’elettronica, l’alto tasso di obsolescenza e gli ammortamenti, provocando un forte calo del valore del vecchio capitale che deve essere sostituito con nuovi investimenti lordi prima che possa essere registrato qualsiasi incremento netto nel valore complessivo del mercato dei capitali, assieme a cambiamenti dall’industria pesante all’industria leggera ai servizi, hanno fortemente limitato la capacità del settore privato di trovare collocazione redditizia per i nuovi fondi di capitale. Negli ultimi 50 anni il rapporto tra il valore di mercato del capitale privato rispetto al PIL è rimasto, negli Stati Uniti, abbastanza costante nell’arco di 25 mesi.

D’altro canto, le aspirazioni per le attività detenute per finanziare i più lunghi pensionamenti dovuti agli standard di vita più elevati sono fortemente aumentati. Allo stesso tempo, l’aumento della concentrazione della distribuzione del reddito ha aumentato la quota di quelli con un’alta propensione al risparmio per altri scopi, come ad esempio l’acquisizione di azioni con cui puntare a grandi quote dei giochi finanziari, la costruzione di imperi industriali, le acquisizione di peso gestionale o politico, la creazione di una dinastia, o le dotazioni di filantropie. Questo ha ulteriormente contribuito ad un trend di crescita della domanda di attività da parte degli individui in rapporto al PIL.

Il risultato è stato che il divario tra l’offerta privata e la domanda privata di beni è venuta a costituire una quota crescente del PIL. Questa lacuna è stata anche ampliata dall’attuale disavanzo commerciale estero, che corrisponde ad una diminuzione dello stock di attività interne a disposizione degli investitori nazionali. Per un’economia essere bilanciata ad un dato livello di PIL richiede la fornitura di ulteriori attività sotto forma sia di debito pubblico che di investimenti netti esteri per colmare questa lacuna crescente. Il divario è ora provvisoriamente e approssimativamente stimato essere, per gli Stati Uniti, pari a circa 13 mesi di PIL. Ci sono indicazioni che per il prossimo futuro questo rapporto tenderà a salire anziché scendere. Questo è in aggiunta a qualsiasi ruolo svolgano i diritti di Social Security e di Medicare nel fornire un livello minimo di sicurezza per la vecchiaia.

In assenza di cambiamenti nel flusso di investimenti esteri netti, sarà necessario di un recupero di reddito da parte del governo attraverso un deficit corrente un po’ elevato dell’auspicata crescita del PIL nominale per mantenere l’economia in equilibrio. Limitare i deficit corrisponderebbe a soffocare la crescita. Un pareggio di bilancio, infatti, tenderebbe a fermare del tutto la crescita del PIL nominale, e in presenza di inflazione porterebbe ad un calo del PIL reale e un corrispondente aumento della disoccupazione.

Dipendendo in parte da ciò che potrebbe accadere a livello statale e locale, i programmi attuali di riduzione progressiva del deficit federale a zero nel corso dei prossimi sette anni metterebbe in effetti un tappo sul debito pubblico totale a circa 9 mila miliardi di dollari, il che implica che il PIL convergerebbe, in assenza di variazioni negli investimenti netti esteri, verso un livello di circa 8-9 mila miliardi, oltre alle fluttuazioni cicliche di breve periodo. Ciò a fronte di un PIL di pieno impiego dopo sette anni di inflazione al 3% di circa 13 mila miliardi di dollari. Il PIL del pareggio di bilancio di circa il 65% di questo corrisponderebbe ad un livello segnalato di disoccupazione del 15% o più, in aggiunta alla disoccupazione non dichiarata. Successivamente, se le costrizioni delle modifiche del pareggio di bilancio dovessero essere rispettate, la disoccupazione continuerebbe ad aumentare. Prima che questo possa accadere, però, qualche presa di coscienza rispetto alla realtà sarebbe probabilmente presa in considerazione, anche se non fino a quando non si sarebbe verificata una grande quantità di sofferenza inutile.

 

FALLACIA 8

Se i deficit continuano il pagamento del debito sommergerebbe il fisco.

Prospettiva reale: mentre gli spettatori allarmati sono appassionati di proiezioni da horror story in cui il debito pro capite diventerebbe intollerabilmente gravoso, il pagamento del debito assorbirebbe l’intero gettito delle imposte sul reddito, o la fiducia si perderebbe nella capacità o volontà del governo di imporre le tasse necessarie in modo che le obbligazioni non possano essere commercializzate a condizioni ragionevoli, scenari ragionevoli proteggono da un effetto trascurabile o addirittura favorevole sul fisco. Se la piena occupazione è mantenuta in modo che il PIL nominale continui a crescere diciamo al 6%, costituito da circa il 3% di inflazione e il 3% di crescita reale, il debito equilibrante dovrebbe crescere del 6% o forse ad un tasso leggermente più alto; se il tasso di interesse nominale fosse dell’8% , il 6% di questo sarebbe finanziato dalla crescita necessaria del debito, lasciando solo il 2 % da ricercare fuori del bilancio in corso. Le imposte sui redditi sull’aumento dei pagamenti per interessi compenserebbe molto di questo, e i risparmi di una disoccupazione ridotta, di prestazioni assicurative e di costi sociali coprirebbero molto più del resto, oltre ad un notevole aumento delle entrate fiscali dovute ad un’economia più prospera. Anche se gran parte di questi guadagni sarebbero fruiti dai governi statali e locali, piuttosto che dal governo federale, questo potrebbe essere regolato attraverso dei cambiamenti nei trasferimenti intergovernativi. 15.000 miliardi di debito saranno molto più facilmente affrontati con un’economia di piena occupazione, con esigenze notevolmente ridotte per i sussidi di disoccupazione e welfare, che 5.000 miliardi di debito per un’economia in depressione e con le proprie dotazioni in rovina. Semplicemente non è un problema.

 

FALLACIA 9

Si sostiene che l’effetto negativo considerando il peso insostenibile del debito aumentato dovrebbe annullare l’effetto di stimolo del deficit. Questa travolgente affermazione dipende da un errore di analisi della situazione nel dettaglio.

Realtà analitica: questa tesi di “equivalenza ricardiana”, mentre viene attribuita a Ricardo, non può, in fondo, essere sottoscritta da lui. In ogni caso la sua validità dipende in modo cruciale dal sistema di tassazione che dovrebbe essere utilizzato per finanziare il pagamento del debito.

Ad un estremo, in una economia Georgiana facendo uso esclusivo di una “tassa singola” sul valore dei terreni, in cui ci si aspetta che i valori dei terreni si evolvano proporzionalmente nel tempo, tutti i debiti diventano a tutti gli effetti un mutuo collettivo sugli appezzamenti di terra. Qualsiasi aumento del debito pubblico per compensare la riduzione fiscale deprime il valore di mercato dei terreni per un importo uguale; la ricchezza aggregata degli individui non viene influenzata; l’equivalenza ricardiana è completa e la politica fiscale pura è impotente. Un debito più grande può ancora essere desiderabile per approfittare dei tassi di interesse più bassi eventualmente disponibili sul debito pubblico e quindi sui mutui privati, e in effetti nel dotare le proprietà di un mutuo built-in assumibile che faciliti il finanziamento dei trasferimenti. E ci potrebbe essere ancora una possibilità per stimolare l’economia attraverso le spese fiscali finanziate dalle tasse che ridistribuiscono i redditi verso quelli con una maggiore propensione al consumo.

In un altro scenario, se l’imposta principale è unica su tutti gli immobili, com’è normale nella finanza locale americana, l’effetto è drasticamente diverso. In questo caso, qualsiasi investitore che costruisce un edificio assume in tal modo, almeno per il periodo della costruzione, una quota del debito pubblico, soggetto ad una parte di questo onere che potrebbe essere rilevato da ulteriori costruzioni. Non solo questo scoraggia le costruzioni, ma se l’ eccesso di debito diventa troppo grande, la previsione che gli altri prenderebbero una parte del peso del debito potrebbe svanire piuttosto improvvisamente, e tutte le costruzioni subire un brusco arresto. Il debito diventa un forte inibitore di crescita. Anche se questo risultato può assomigliare a quello sostenuto dalla teoria dello “spiazzamento”, il meccanismo non è quello di un dislocamento, ma di disincentivo.

Con le tasse sulle vendite o sul valore aggiunto come le attuali, un deficit che volto alla riduzione delle aliquote fiscali oggi non avrebbe alcun effetto deprimente sui valori patrimoniali e avrebbe un effetto completamente stimolante, attraverso l’aumento dell’offerta aggregata di beni, eventualmente rafforzata da una spesa anticipata motivata dalle aspettative circa il fatto che le tasse potranno essere più alte in un secondo momento per finanziare il pagamento del debito. Non ci sarebbe nessun effetto di equivalenza ricardiana; semmai la previsione di maggiori imposte future incoraggerebbe la spesa corrente, aggiungendosi allo stimolo di maggiore offerta di titoli.

Il sistema fiscale federale degli Stati Uniti è dominato dalle imposte sui redditi, per il quale l’effetto è un misto tra imposte sul risparmio e imposte sulla spesa. In pratica alcuni individui avranno una idea chiara delle tasse che potrebbero essere imposte in futuro a seguito dell’esistenza di un debito maggiore e si può tranquillamente dire che non si verificherà alcun motivato fenomeno di equivalenza ricardiana, anche se ci può essere qualche malessere generalizzato tra gli spettatori in allarme, che coinvolge una sorta di parziale profezia che si autoavvera.

 

FALLACIA 10

Il valore della moneta nazionale in termini di valuta estera (o oro) si ritiene essere una misura della salute economica, e una le misure per mantenere quel valore si pensa servano a contribuire a questa salute. In alcuni ambienti una sorta di orgoglio sciovinista è collegato al valore della propria moneta, o una soddisfazione potrebbe derivare dal maggiore potere d’acquisto della moneta nazionale in termini di viaggi all’estero.

Realtà: i tassi di cambio liberamente fluttuanti sono il mezzo con cui gli adattamenti sono fatti per livellare le tendenze dei livelli dei prezzi nei vari paesi e gli squilibri commerciali si allineano ai flussi di capitale opportuni per aumentare la produttività complessiva del capitale. I tassi di cambio fissi o i tassi di cambio limitati a una banda ristretta possono essere mantenuti solo attraverso politiche fiscali coordinate tra i paesi coinvolti, imponendo tariffe che pregiudicano l’efficienza o altre restrizioni sugli scambi, o imponendo costose restrizioni che comportano inutilmente alti tassi di disoccupazione, come è implicito negli accordi di Maastricht. I tentativi di arrestare i tassi di cambio attraverso manipolazioni finanziarie a fronte di squilibri di base di solito si scontrano, alla fine, con grandi perdite per le istituzioni che effettuano il tentativo e un corrispondente guadagno da parte di agili speculatori. Anche nei casi di piccoli insuccessi, gran parte della volatilità dei tassi di cambio possono essere ricondotti a speculazioni sulla possibilità di massicci interventi della banca centrale.

Le restrizioni sui tassi di cambio, come sono previsti negli accordi di Maastricht, renderebbe praticamente impossibile per una piccola economia aperta, come la Danimarca, perseguire una politica di pieno impiego efficace in sé. Gran parte della crescita del potere d’acquisto generata da una politica fiscale di stimolo verrebbe spesa per le importazioni, diffondendo l’effetto stimolante nel resto dell’unione monetaria in modo che la capacità di indebitamento della Danimarca si esaurirebbe molto prima che la piena occupazione potrebbe essere raggiunta. Con i tassi di cambio flessibili, la maggiore domanda di importazioni causerebbe un aumento del prezzo della valuta estera controllando l’aumento delle importazioni e stimolando le esportazioni in modo che la maggior parte degli effetti di una politica espansiva potrebbero essere mantenuti in casa. Il pericolo di oscillazioni speculative selvagge in condizioni liberamente fluttuanti sarebbero notevolmente contenute nell’ambito di una politica di pieno impiego ben consolidata, soprattutto se combinata con una terza dimensione di controllo diretta sul livello generale dei prezzi interni.

Allo stesso modo, la ragione principale per cui stati e località non possono perseguire una politica indipendente di piena occupazione è che non hanno una valuta indipendente, e sono costretti ad avere un tasso di cambio fisso con il resto dell’area.

 

FALLACIA 11

Si sostiene che l’esenzione delle plusvalenze da imposte sul reddito possa promuovere gli investimenti e la crescita.

Realtà: qualsiasi tentativo di definire una speciale categoria di reddito soggetta ad un trattamento differenziato è un invito agli apprendisti stregoni del Congresso e degli uffici del fisco per iniziare a lanciare incantesimi destinati a produrre conseguenze sorprendenti. Tentare di elaborare regole amministrabili che definiscono linee economicamente significative tra interessi accreditati nei depositi ma non riscossi, obbligazioni senza cedola, apprezzamenti di stock di utili non distribuiti, utili derivanti da inflazione, utili derivanti da “insider trading”, utili derivanti da speculazioni su terreni, scommesse sui derivati, utili o perdite su attività di rischio e così via è un compito assai arduo. Contribuenti irascibili potrebbero quindi impegnarsi a cercare scorciatoie attraverso il labirinto che ne risulterebbe a discapito delle entrate e anche dell’efficienza economica. Dieci disposizioni speciali del codice possono essere combinate tra loro in più di mille modi per produrre risultati ben al di là della capacità di prevederle da parte di una commissione del Congresso e il proprio staff.

Concessioni in termini di guadagni devono comportare corrispondenti limitazioni alla deducibilità delle perdite, affinché non vi siano intollerabili grandi possibilità di arbitraggio a discapito delle entrate. Nel tentativo di contrastare le abilità dei tecnici dei contribuenti, le regole sono probabilmente più severe sulla deducibilità delle perdite che liberali rispetto ai guadagni, in modo da produrre una serie di situazioni in cui il Tesoro sta giocando a “testa vinco io, croce perdi tu” con il contribuente. Anche con regole livellate, potrebbe valere più il disincentivo di una ridotta deducibilità delle perdite verso investimenti speculativi che un’attrattiva derivante da tasse basse sulle plusvalenze in caso di successo.

La maggior parte degli investimenti economicamente desiderabili impiegano molto tempo affinché gli effetti attesi vengano riflessi sui mercati dei capitali, e la promessa di un vantaggio fiscale che diventi efficace in un futuro remoto, soggetto a possibili modifiche da parte di legislature future è probabile che rappresenti poco peso nel calcolo degli investitori. In ogni caso, l’imposta sul reddito delle persone fisiche derivante dalle plusvalenze è riscossa dopo o al di sotto del mercato e dispiega il suo effetto primario sul reddito disponibile dell’investitore, e relativamente poco effetto sul mercato dei capitali da cui derivano i fondi per la formazione del capitale.

In pratica, molte plusvalenze derivano da operazioni di trascurabile o dubbio merito sociale. Gli utili derivanti dalla speculazione fondiaria non aggiungono nulla all’offerta di terreni, e gran parte dei proventi da negoziazione di titoli basate su informazioni avute in anticipo, anche se non caratterizzabili come “insider trading”, non fanno molto per migliorare la produttività o l’investimento più di quanto non facciano le vincite derivanti da scommesse sulle partite di basket. I tentativi di escludere i guadagni da speculazione, limitando le concessioni alle attività detenute per periodi più lunghi, non solo introduce nuove complessità nella determinazione del periodo di detenzione nei casi di “rollover”, dividendi reinvestiti, ed altre transazioni, ma aggrava l’effetto lock-in, giacché il realizzo è rinviato per ottenere la concessione, un effetto particolarmente grave nel caso di esenzione totale dall’imposta sul reddito delle plusvalenze su immobili ceduti attraverso donazione o lascito.

Qualsiasi aumento del reddito disponibile derivante dalla minore tassazione delle plusvalenze sarebbe come accumulare per un individuo con una elevata propensione al risparmio. Se la proposta è avanzata su basi di entrate neutrali, i ricavi conseguenti sono suscettibili di avere un grande impatto sulla domanda di consumi, in modo che l’effetto complessivo netto di fare concessioni sulle plusvalenze potrebbe essere quello di ridurre domanda, vendite e investimenti in impianti produttivi. La principale forza trainante delle proposte potrebbe essere come un pretesto per fornire fortune inattese alle persone che possono contribuire ai fondi elettorali, nonché ulteriori commissioni per i broker.

Alcuni hanno ipotizzato riduzioni delle tasse sulle plusvalenze piuttosto che la loro esenzione totale, puntando ad aumentare le entrate provenienti dalla ondata di “vendite” dei capital gains per sfruttare i nuovi e ipotetici vantaggi fiscali di breve termine. Se questo è fatto sulla base di ipotesi di entrate neutrali correnti, ci potrebbe essere qualche stimolo dell’economia e degli investimenti una-tantum, derivante da quello che sarebbe un aumento del deficit effettivo visto da una prospettiva di lungo termine, ma questa (soluzione) sarà limitata, temporanea e controproducente nel lungo periodo.

Una misura molto più efficace sarebbe quello di ridurre o eliminare la tassa sul reddito delle società, che è in effetti una tassa scorrelata dal mercato, costituendo un ulteriore ostacolo che i potenziali capitali finanziari devono affrontare, in contrapposizione all’impatto delle concessioni dei capital gain al di sotto del mercato. In aggiunta a questo impatto doppiamente negativo sull’economia in cui le imposte contemporaneamente sia sottraggono dal reddito disponibile sia scoraggiano gli investimenti, le tasse hanno il difetto di provocare una distorsione nell’allocazione degli investimenti, favorendo i finanziamenti azionari deboli con conseguente maggiore incidenza di fallimenti, e complicando le leggi fiscali. Purtroppo a tale eliminazione è probabile che si oppongano non solo coloro che vivono di complessità, ma anche quei molti che variamente credono fermamente che l’onere ricada anche su qualcun altro diverso da sé. In realtà nella maggior parte degli scenari plausibili l’onere principale ricadrà sui salariati. Se considerato come un sostituto di altre imposte su basi neutrali di gettito, aumenterebbe la disoccupazione attuale. Se il lavoro attuale si presume essere mantenuto da una politica fiscale adeguata, la produttività e i salari futuri saranno compressi dal fatto che il fattore lavoro ha a disposizione meno capitale per lavorare.

Una giustificazione a volte offerta per l’imposizione di una tassa sul reddito delle società è che gli utili non distribuiti non sopportano la loro giusta quota di imposta sul reddito individuale. Piuttosto che mantenere un’imposta su tutti i redditi d’impresa, questa considerazione potrebbe richiedere una tassa di compensazione ad esempio del 2 per cento annuo sugli utili non distribuiti accumulati, come equivalente di massima ad un addebito di interessi sul differimento risultante delle imposte sul reddito individuale degli azionisti. Al meglio questo sarebbe rozzo, dal momento che non consente né variazioni nei tassi marginali a carico dei singoli azionisti, né eventuali realizzazioni da utili non distribuiti mediante la vendita di azioni, ma sarebbe comunque molto migliore della tassa inetta e draconiana sugli utili non distribuiti promulgata brevemente durante il 1930.

Una rimozione più approfondita degli effetti distorsivi delle imposte sugli investimenti reali potrebbe essere realizzata valutando l’imposta sul reddito individuale su base cumulativa, per cui una imposta lorda sul reddito accumulato fino ad oggi (compresi gli interessi attribuiti in materia di imposte passate pagate su questo reddito) sarebbe calcolata con riferimento a tabelle che dovrebbero prendere in considerazione il periodo in questione. Il valore accumulato, con gli interessi, delle imposte già pagate su questo reddito viene accreditato contro questa imposta lorda. A condizione che venga considerato il reddito totale, il carico fiscale finale sarà indipendente dai tempi di realizzazione delle reddito; circa i due terzi dei codici e dei regolamenti interni delle entrate diventerebbero superflui. Il terreno di gioco sarebbe effettivamente livellato; un trattamento equo dovrebbe essere concesso sia a coloro che realizzano grandi guadagni in un solo anno che a quelli che si sono ritirati dopo una breve carriera o alti guadagni, un gruppo non adeguatamente considerato nel quadro di molti altri regimi medi. Il pregiudizio nei confronti di investimenti con rendimento fluttuante o rischiosi sarebbe in gran parte eliminato. Le decisioni circa quando vendere beni per realizzare guadagni o perdite o quando vada fatta la distribuzione di dividendi potrebbero essere prese esclusivamente sulla base della valutazione delle condizioni di mercato, senza dover considerare conseguenze fiscali. Orde di tecnici fiscali potrebbero trasferire il proprio talento in attività più produttive.

La condiscendenza del contribuente sarebbe notevolmente semplificata. Il calcolo attuale dell’imposta cumulativa e dell’imposta dovuta richiede solo sei voci aggiuntive sui rendimenti, tre delle quali sono elementi semplicemente copiati dai rendimenti precedenti. Come misura introduttiva, la valutazione cumulativa potrebbe essere limitata a quei soggetti per effettuare una valutazione iniziale.

 

FALLACIA 12

Il debito potrebbe eventualmente raggiungere livelli tali che fanno si che gli istituti di credito siano minacciati da ribellioni e default.

Realtà rilevante: questa paura nasce in parte dall’osservazione delle crisi dei Paesi poveri di capitale che hanno avuto difficoltà a rispettare le obbligazioni denominate in una valuta estera, costretti in molti casi a finanziare le importazioni e, infine, a rimborsare gli interessi e i debiti in termini di esportazioni; la crisi spesso deriva da un crollo del mercato delle esportazioni. Nel caso in esame il debito è destinato a fornire una domanda interna per le attività denominate in valuta nazionale, e in assenza di una norma come la clausola dell’oro, non ci può essere alcun dubbio circa la capacità del governo di effettuare i pagamenti nei termini dovuti, anche nel caso di una moneta svalutata dall’inflazione. Né ci può essere alcuna questione di timore per gli istituti di credito nazionali fino a quando il debito è limitato a quello necessario per riempire il vuoto creato da un eccesso di domanda privata rispetto all’offerta privata di attività.

Non si è capito che il debito pubblico nazionale dovrebbe essere tenuto in grande quantità dagli stranieri. Ma gli stranieri dovessero voler liquidare il possesso di questo debito, o di qualsiasi altra attività domestica, potrebbero farlo solo nel loro insieme generando un surplus di esportazioni, alleggerendo il problema della disoccupazione nazionale, liberando risorse per soddisfare la domanda interna, e rendendo possibile ottenerlo con deficit più piccoli ed una crescita meno rapida del debito pubblico. La stessa cosa accade se gli investitori nazionali si dirigono verso investimenti in attività estere, riducendo così il loro drenaggio sugli attivi nazionali.

In un mercato in preda al panico può succedere che il prezzo di mercato delle attività potrebbe diminuire abbastanza rapidamente in modo che il valore totale di mercato delle attività disponibili per soddisfare la domanda interna potrebbe crollare. In tal caso un aumento temporaneo dei deficit pubblici piuttosto che una diminuzione sarebbe normale. Organizzare questo con un breve preavviso può essere difficile, e il pericolo di reagire in maniera eccessiva o con scarsa tempistica è reale. Qualcosa di più di semplici pure dichiarazioni che l’economia è fondamentalmente sana, tuttavia, si impone. Ma non si può del tutto escludere la possibilità che questo diventi una profezia generata dal panico che si auto-avvera derivante da una concentrare dell’attenzione sui simboli finanziari piuttosto che sulla realtà umana sottostante. In termini di Roosevelt, la cosa principale da temere è la paura stessa.

 

FALLACIA 13

Prevedere una tassazione generatrice di disavanzi di bilancio si traduce in una maggiore e forse più stravagante, inutili ed oppressiva spesa puibblica.

Realtà: Le due questioni sono abbastanza indipendenti, nonostante il fatto che molti anarco-liberisti sembrano utilizzare l’ideologia del pareggio di bilancio come un modo per mettere una camicia di forza sull’attività di governo. Un governo potrebbe avere un deficit senza effettuare alcuna attività oltre che a prestare denaro emettendo obbligazioni, pagando i proventi in pensioni di vecchiaia, e riscuotendo imposte sufficienti a coprire qualsiasi interesse sul debito netto. La questione di quale attività valga la pena portare avanti per il governo è una questione totalmente diversa da quella di quale sia il contributo del governo al flusso di reddito disponibile per bilanciare l’economia alla piena occupazione.

 

FALLACIA 14

Il debito pubblico è pensato come un onere tramandato da una generazione ai suoi figli e nipoti.

Realtà: al contrario, in termini generazionali (da non confondersi con intervalli di tempo), il debito è il mezzo con cui gli attuali coorti di lavoro vengono messi nella condizione di guadagnare di più attraverso la piana occupazione e investire nella maggiore offerta di beni, di cui il debito è una parte, in modo da provvedere alla propria vecchiaia. In questo modo i figli e i nipoti sono liberati dall’onere di provvedere al pensionamento delle precedenti generazioni, sia a titolo personale che attraverso programmi governativi.

Questo errore è un altro esempio di pensiero a somma zero che ignora la possibilità di un aumento dell’occupazione e della aumentata produzione. Anche se è ancora vero che i beni consumati dai pensionati dovranno essere prodotti dalla popolazione attiva contemporanea, l’aumento del debito pubblico permetterà ad una quantità maggiore di questi beni di essere scambiati con altre attività anziché trasferiti attraverso il meccanismo fiscale e previdenziale.

In qualche modo il risultato di tale finanziamento del disavanzo è analogo alla proroga di un regime pensionistico di previdenza sociale per fornire benefici aggiuntivi ai redditi medi e superiori oltre i livelli esistenti di salari e retribuzioni soggetti a contributi previdenziali e alle prestazioni corrispondenti. Ci sono differenze importanti, però. Il sistema di sicurezza sociale è infatti spesso criticato come in effetti una sorta di schema Ponzi in cui i benefici per coorti precedenti sono finanziate da imposte sulle coorti successive. Lo schema evita il collasso in virtù del suo essere obbligatorio in modo che ci saranno sempre coorti successive per pagare il conto, anche se forse con aliquote fiscali più alte o più basse, a differenza dei regimi privati che tendono a collassare quando si scopre che l’imperatore non ha vestiti e i nuovi contributori fuggono lontano.

Questo elemento Ponzi è stato, però, necessario per far decollare il programma durante la depressione. Il tentativo era stato fatto per stabilire il sistema. Fortunatamente tale eliminazione è probabile che incontri l’opposizione non solo di quelli che vivono grazie alla complessità ma anche di coloro che in vario modo credono fermamente che l’onere ricada su qualcuno diverso da loro stessi. In realtà nella maggior parte degli scenari plausibili l’onere principale ricadrà sui salariati. Se considerato come un sostituto di altre imposte sulla base di un gettito neutrale, aumenterebbe la disoccupazione attuale. Se la disoccupazione attuale si presume essere mantenuta da una sere di tasse adeguate, i pensionati riceverebbero pagamenti pensionistici ben oltre quello che sarebbe stato finanziato dai loro contributi e solo una parte relativamente piccola andrebbe accumulata in un fondo di riserva per consentire accidentali differenze tra entrate e spese. Anche così, il relativo breve ritardo tra l’insorgenza dei contributi previdenziali sui libri paga e l’inizio dei pagamenti sostanziali ai pensionati costituisce un prelievo dal potere d’acquisto, aggravato dall’esclusione delle entrate nel calcolo del deficit formale, aggiungendo pressione per ridurre la somma netta aggiuntiva del governo al potere di acquisto, e un pessimismo globale derivante dalla percezione dei disavanzi come sintomi di cattiva salute economica. Questi impatti aggravarono notevolmente il calo della produzione industriale nell’autunno del 1937, di gran lunga il più forte mai registrato.

Attualmente, l’importo da cui il valore attuale dei pagamenti futuri attesi ai partecipanti attuali supera quello dei contributi da loro attesi è una passività reale del governo che è probabilmente inevitabile almeno quanto quella rappresentata dal debito formale. Mentre le scadenze dei pagamenti sono soggette a variazioni attraverso atti del Congresso, sia cambiando l’età della pensione, sia imponendo pagamenti maggiori per imposte sul reddito, sia attraverso altre soluzioni, le pressioni politiche sono in grado di richiedere almeno un certo grado di indicizzazione all’inflazione, in modo che alla fine il saldo reale potrebbe probabilmente dimostrarsi sia come una obbligazione di “diritto” reale sia come un debito formale, che è soggetto in una misura molto maggiore ad una possibile erosione attraverso l’accelerazione dell’inflazione. Gli importi non sono piccoli; una stima ha valutato i diritti delle amministrazioni in conto capitale, compresi i pagamenti per le pensioni militari e civili, pari al Pil di oltre 3 anni, ma tali stime sono necessariamente soggette ad una vasta gamma di incertezze.

La situazione potrebbe essere formalmente regolarizzata da una voce contabile che si aggiungerebbe alle attività del sistema di sicurezza sociale e alle passività esplicite del governo. Tuttavia, questa sarebbe una mossa puramente formale che dovrebbe essere, in linea di principio, di trascurabile importanza pratica, anche se un Congresso ossessionato dalla riduzione del deficit formale potrebbe cogliere questo riconoscimento di debito come pretesto per ulteriore inadeguato rigore di bilancio. In ogni caso, l’impatto macroeconomico non si misura attraverso la grandezza della passività del governo, in qualunque modo sia essa calcolata, ma dal valore attribuito a questi diritti da parte dei potenziali beneficiari nel prendere decisioni di risparmio e di consumo.

Molti hanno anche lamentato che l’investimento delle attuali piccole riserve del “social security” in titoli di Stato speciali equivale a dirottare i contributi di sicurezza sociale verso la spesa pubblica. Ma la situazione non sarebbe diversa, invece, se l’amministrazione del “social security” dovesse investire in titoli privati, con il settore assicurativo privato che scambia i suoi fondi di riserva dai titoli privati ai titoli di Stato. L’unico vero impatto per spostare il sistema di sicurezza sociale “fuori dal bilancio” si troverebbe nella decisione del Congresso verso l’ampliamento del deficit nominale attraverso l’esclusione della crescita delle riserve del “social security”. Se il Congresso dovesse reagire per compensare questo aumento attraverso la riduzione del bilancio, il risultato sarebbe un aumento della disoccupazione prodotta come risultato di un salvataggio nazionale della riserva del “social security” dal suo “spreco” nella spesa pubblica.

Mettendo da parte come il sovvenzionamento, passato irrimediabilmente, delle generazioni precedenti, per coloro che attualmente pagano le tasse sui salari la realtà rilevante (in maniera distinta da convenzioni contabili arbitrarie), è che il rapporto tra le imposte pagate da o per conto di qualsiasi individuo e il valore attuale previsto dei benefici futuri è estremamente vago. Nel complesso, se si dovessero applicare le norme attualmente (esposte) sui libri ad uno stato demografico stazionario di una popolazione costante con una costante aspettativa di vita, con il relativamente piccolo fondo di riserva del “social security” mantenuto ad un livello costante, il valore attuale dei benefici dovuti ad un data generazione cadrebbe al di sotto del valore attuale netto delle imposte pagate nel corso della sua vita lavorativa a causa della differenza tra gli interessi che sarebbero stati guadagnati da una riserva attuariale piena e la minore quantità di interessi pagati sulla riserva registrata. Da questo punto di vista, guardando solo al futuro, ci sarebbe quindi un contributo netto del sistema di sicurezza sociale al fisco in generale, molto più grande, in realtà, dell’importo considerato nel caso dell’aggiunta alla piccola riserva nominale che viene impropriamente destinata alle spese pubbliche correnti.

In termini di cambiamenti demografici reali, popolazione in crescita e allungamento dell’aspettativa di vita significano che se il fondo di riserva viene mantenuto costante, le generazioni attuali guadagnano ancora a discapito delle generazioni successive. In pratica questo viene un po’ modificato dai differenziali tra i ricavi totali delle imposte correnti e i pagamenti totali delle prestazioni correnti, riflessi nelle fluttuazioni del fondo di riserva.

Tra ogni generazione, l’operazione spesso arbitraria e capricciosa delle complesse formule con cui vengono determinati i benefici indica che il rapporto tra imposte pagate in un dato momento da un determinato individuo e il conseguente aumento di eventuali benefici attesi è molto variabile e spesso capriccioso. A un estremo, molti di coloro che accumulano meno di 40 trimestri di occupazione lungo l’intero periodo di vita lavorativa non raggiungono i requisiti per ricevere alcun beneficio; i loro contributi sono effettivamente una tassa sui loro salari, sia se nominalmente pagati da se stessi sia dal loro datore di lavoro. Esempi sono le donne che iniziano a lavorare a 18 anni ma che si sposano e lasciano il lavoro a 25, o “empty nesters” che entrano nella forza lavoro per la prima volta all’età di 54 o successivamente. Per tali persone la spremitura in un quarantesimo trimestre di copertura potrebbe essere estremamente redditizio.

Anche per la maggior parte di coloro che risulteranno ammissibili, vi è una esclusione arbitraria in base alla formula arbitraria dei cinque anni dei guadagni coperti dalla più bassa indicizzazione annuale, in modo che per questi anni i contributi sono ancora una tassa pura. Ciò è particolarmente deplorevole in quanto questi anni minori sono nella maggior parte dei casi i primi anni di lavoro, in età per la quale i tassi di disoccupazione sono più alti, e gli effetti della tassa molto peggiori.

I benefici non sono pagati sulla base delle imposte pagate, ma sulla base della copertura salariale, il che significa che coloro che hanno lavorato durante gli anni in cui le aliquote sono state basse ottengono benefici come se avessero pagato le tasse ai livelli successivi più elevati. D’altra parte, nelle prestazioni di calcolo, i salari sono indicizzati non con un indice dei prezzi o con un coefficiente di interesse composto, ma con un salario medio nazionale, che tendenzialmente è cresciuto ad un tasso significativamente inferiore ad un adeguato tasso di interesse. Il risultato è che in un periodo di aliquote fiscali costanti, le imposte sui salari precedenti comportano meno benefici in termini di valore attuale rispetto a quelli sui salari successivi.

I benefici sono determinati su basi progressive piuttosto ripide, essendo circa il 90% dei primi $ 5.000 dei salari individuali medi indicizzati annuali, il 32% dei salari tra $ 5.000 e $ 30.000, il 15% di quelli tra $ 30.000 e $ 60.000, e zero sopra i $ 60.000. Il risultato è un trasferimento abbastanza consistente dai lavoratori ad alto reddito verso i lavoratori a basso reddito. I lavoratori a basso reddito ricevono effettivamente, come gruppo, benefici che superano, in valore attuale, le imposte sui salari versate sui loro guadagni, mentre relativamente gran parte delle tasse sui salari versate sugli stipendi più alti sarebbe effettivamente una tassa piuttosto che un premio.

A causa di questo basso ritorno in termini di benefici sulle imposte sui salari nel range $ 30,000 – $ 60.000, il fatto che non viene prelevata alcuna imposta sui salari per stipendi superiori a questo limite di $ 60,000 produce una flessione profondamente anomala nel livello del tasso effettivo marginale combinato sui redditi da guadagni superiori a questo limite. Non solo questa inversione di progressività è inefficiente in termini di incentivi, ma apre anche la possibilità ad un accordo in base al quale un datore di lavoro sarebbe d’accordo con il proprio dipendente a pagare $ 20.000 e $ 100.000 in anni alterni, invece che un costante di $ 60.000. Ciò ridurrebbe le tasse da pagare sui salari mentre produrrebbe solo una riduzione relativamente piccola dei benefici attesi. Questo potrebbe essere parzialmente compensato da un conseguente aumento delle imposte sul reddito del singolo a meno che non si possa mettere a punto qualche spostamento compensativo dagli altri redditi.

L’impatto del sistema del “social security” sull’equilibrio tra la domanda e l’offerta di beni e sull’occupazione è quindi piuttosto complesso. Tuttavia, non dipende tanto dalla complessa realtà del sistema come viene percepita, sia dai partecipanti che dal Congresso. Molti al Congresso sembrano confusi dalla irrilevante retorica selvaggia per quanto riguarda la presunta “deviazione ” delle eccedenze dei ricavi del “social security” verso la spesa pubblica, e dalla disputa circa cui il sistema deve essere considerato “nel budget” o “fuori budget”. La maggior parte dei contribuenti dipendenti sono solo vagamente consapevoli del rapporto tra i loro “contributi ” e gli eventuali benefici. La maggior parte dei lavoratori dipendenti più giovani probabilmente prestano poca attenzione alla prospettiva dei benefici in diversi decenni futuri, e tendono a considerare il loro contributo del tutto come una tassa, anche se forse sotto la persistente illusione che la quota della tassa del “datore di lavoro” è effettivamente a carico del datore di lavoro.

I lavoratori anziani a basso salario sono forse più propensi a prendere in considerazione i benefici futuri per determinare il loro atteggiamento verso le imposte sui salari, le aspettative verso i benefici e le decisioni sul livello di spesa. I lavoratori ad alto salario, d’altra parte, possono essere più propensi a considerare i contributi sui salari come una tassa, incoraggiati, in molti casi, dalla propaganda mostrando come il loro contributo, se investito invece su base individuale in pensioni o rendite private, potrebbe restituire sostanzialmente maggiori benefici, in modo che il “social security” sembra essere un cattivo affare per loro.

Un altro modo di vedere le cose è quello di indagare l’equivalente, in termini di ricchezza individuale, dell’interesse dei clienti nel sistema. Da un lato il livello dei benefici futuri non è garantito, ma è soggetto a modifiche da parte del Congresso, come ad esempio sottoponendo i benefici all’imposta sul reddito individuale, aumentando l’età normale di pensionamento in base alla quale vengono calcolati i benefici, aumentando il livello imponibile dei salari, o anche cambiando la stessa formula delle pensioni. Mentre non vi è alcun minimo garantito al di sotto del quale le pensioni non possono essere ridotte, la realtà politica sembra essere che i contribuenti possano contare su una onesta equivalenza di ricchezza sostanziale. C’è anche una pratica abbastanza consolidata di indicizzare le pensioni rispetto all’indice dei prezzi al consumo, in modo che la ricchezza previdenziale rischi di essere meno compromessa dall’inflazione rispetto agli investimenti in titoli di Stato a lungo termine.

Inoltre, la ricchezza del “social security” è molto meno fortemente concentrata tra le classi medie e superiori in termini di ricchezza generale, e quindi tende ad avere una maggiore influenza favorevole sul livello della spesa per consumi.

 

FALLACIA 15

La disoccupazione non è dovuta alla mancanza di domanda effettiva, riducibile attraverso deficit di stimolo alla domanda, ma è “strutturale”, derivante da una mancata corrispondenza tra abilità dei disoccupati e quanto richiesto dai posti di lavoro, o “regolamentare”, derivante da leggi sul salario minimo, da restrizioni di impiego di classi di individui in determinate professioni, dai requisiti per la copertura sanitaria, o vincoli di licenziamento onerosi, o “volontario”, in parte come risultato di troppo generosi e mal progettati programmi di previdenza sociale e disposizioni di soccorso.

Situazione attuale: per chi conosce le condizioni del mercato del lavoro, è abbondantemente evidente che una gran parte di quelli attualmente registrati ufficialmente come disoccupati, così come molti di quelli che non sono registrati, sono pronti e in grado di svolgere la maggior parte, se non proprio tutti, i tipi di lavoro che sarebbero disponibili in seguito ad un aumento della domanda di mercato. In assenza di tale aumento, agli attuali livelli di disoccupazione, i tentativi di far entrare persone o gruppi di disoccupati selezionati in posti di lavoro attraverso la formazione, l’istruzione riguardo alle tecniche di ricerca di lavoro, le minacce di revoca o di negazione delle indennità, e cose simili, semplicemente spostano le persone selezionate all’inizio della coda d’attesa senza ridurre la lunghezza della coda stessa. Semplicemente perché qualsiasi viaggiatore può assicurarsi un posto su un volo raggiungendo l’aeroporto con sufficiente anticipo non significa che se ognuno di 200 passeggeri arrivasse in aeroporto con sufficiente anticipo potrebbero salire su un volo con posti a sedere per 150.

Anche se i lavori sono specificatamente creati per clienti selezionati, come le agevolazioni dell’apertura di un nuovo negozio o affare, mentre ci può essere uno stimolo temporaneo per l’economia derivante da qualsiasi investimento di capitale in cui è coinvolto, in ultima analisi, in molti casi, questo sarà solo riduzione del potere d’acquisto da altri stabilimenti, con conseguente riduzione delle vendite, riduzione del valore del capitale, ed eventualmente riduzione di impiego in qualche altra parte. Solo se qualche elemento di novità induce i consumatori a spendere importi supplementari, interferendo sui loro risparmi previsti, o se la “tariffa di lavoro” comporta la produzione di un bene pubblico o di un servizio accessorio gratuito che non compete con il potere d’acquisto o sostituisce qualche altro impiego pubblico, ci sarà qualche riduzione netta della disoccupazione. Ma mentre tali programmi pubblici di lavoro possono veramente convertire il lavoro dei disoccupati nel miglioramento delle strutture pubbliche e di strutture di vario tipo, purché siano finanziati sulla base di un deficit invariato, qualsiasi impatto ulteriore sull’economia nel suo complesso sarà limitato alla differenza tra il tasso aggiuntivo di quelli il cui reddito deriva dal programma e il tasso di spesa di coloro che pagano le tasse per finanziarla.

Oltre a un tale programma di lavori pubblici, il risultato dei tentativi di spingere la gente a trovare posti di lavoro è semplicemente un grande gioco di sedie musicali in cui gli enti locali istruiscono i loro clienti nell’arte della seduta rapida, con i musoni delle ”tariffe di lavoro” che minacciano di confiscare le stampelle di coloro che soccombono, mentre Washington (il governo centrale) è occupato a rimuovere le sedie a causa della riduzione del deficit.

Per quanto riguarda la disoccupazione “volontaria”, gran parte di essa scomparirebbe non appena la domanda e l’attività aumenti, e i lavoratori più qualificati si muovono verso l’alto lasciando i posti di lavoro a bassa qualifica grazie alla crescente domanda di competenze elevate, lasciando più posizioni aperte da riempire per i disoccupati poco qualificati, e rimuovendo l’effetto deprimente degli alti livelli di disoccupazione sui salari dei lavori a basse competenze. I salari per i lavori a bassa qualificazione tenderanno necessariamente ad aumentare, alzandoli sufficientemente al di sopra del livello della rete di sicurezza sociale per attenuare gli incentivi negativi del welfare. Salari più alti farebbero aumentare i prezzi dei prodotti a bassa qualificazione, aumentando la “produttività” misurata per tali posti di lavoro e riducendo il marchio attribuitogli di lavori “a bassa produttività” o “residuali”. I prezzi dei prodotti ad alte abilità dovrebbero ridursi per compensazione, probabilmente come risultato del progresso tecnologico o di economie di scala, ma se non accadesse si potrebbe verificare un piccolo aumento una tantum del costo della vita. Questo tuttavia sarebbe un piccolo prezzo da pagare per i benefici della piena occupazione. Non si deve assumere questo come l’inizio di una spirale inflazionistica.

Per essere sicuri, ci sono storie di orrore di persone che molto razionalmente rifiutano l’occupazione a causa dell’impatto combinato della riduzione conseguente delle varie prestazioni sociali legate al reddito, degli aumenti delle imposte e dei contributi previdenziali e di viaggio, della cura dei bambini, e degli altri costi associati con l’occupazione. In larga misura ciò è il risultato della progettazione di una varietà di programmi di assistenza sociale e di dipendenza dal reddito indipendenti l’uno dall’altro, senza tenere riguardo alle interazioni e agli effetti combinati. Dal momento che ogni programma legato al reddito è impostato separatamente, i benefici tendono ad essere ridotti o eliminati attraverso modalità progettate per tenere i costi diretti attribuiti al particolare programma o misura bassi. Queste riduzioni o eliminazioni possono sembrare abbastanza ragionevoli se considerate separatamente, ma quando molte di loro si sovrappongono i risultati combinati creano assurdamente elevate “tasse” marginali effettive. Sono necessarie riduzioni più lente, anche se ciò aumenta il costo preventivato dei programmi.

Nella maggior parte dei casi non vi è nessuna giustificazione generale per alcuna riduzione dei beneifici. Nel caso dei crediti derivanti da reddito da lavoro, per esempio, eliminando le riduzioni e recuperando entrate da aumenti dei tassi marginali sulle fasce di reddito superiori comporterebbe un modello più uniforme delle aliquote marginali effettive con minori effetti disincentivanti globali e una notevole semplificazione dei moduli fiscali ed una riduzione dei costi di conformità. La legge attuale sembra essere sorta perché il credito derivante da reddito da lavoro è stato emanato come una toppa apposta alla legge preesistente, oggetto di un tabù contro l’aumento aliquote marginali nominali, mentre l’aumento dei tassi marginali effettivi potrebbe ottenersi dalle riduzioni in questione. L’atteggiamento politico ed la arcana meccanica del processo legislativo hanno impedito un esame razionale della struttura fiscale nel suo complesso.

La pronta disponibilità di posti di lavoro a salario considerevole renderebbe più facile negare i benefici a coloro eccessivamente pignoli sul tipo di occupazione i quali lo accetteranno, riducendo così le necessità di TFR e di altre forme di risarcimenti. La piena occupazione reale ridurrebbe anche la pressione al protezionismo, la resistenza all’abbandono di installazioni militari in esubero e ad altre attività obsolete e renderebbe la sicurezza del lavoro in genere un problema minore. La piena occupazione reale inoltre incoraggerebbe i datori di lavoro a competere per organizzare orari e modalità di lavoro per adattarsi a coloro con obblighi familiari o altri vincoli, e comunque prestare maggiore attenzione al miglioramento delle condizioni di lavoro. Ci sarà meno bisogno di leggi sul salario minimo e altre regolamentazioni pubbliche delle condizioni di lavoro, e meno difficoltà nell’applicazione di quelle che ci sono.


Queste nozioni fallaci, che sembrano essere largamente diffusa sotto varie forme da coloro che sono vicini agli scranni dove siede il potere economico, stanno portando a politiche che non sono solo crudeli, ma inutili e persino controproducenti in termini di obiettivi professati. In alcuni ambienti non sembra nemmeno di esserci un movimento in direzione di una “dichiarazione di prosperità” e adozione di misure per “evitare il surriscaldamento dell’economia” o per spingere verso un tasso di inflazione più elevato. Il Congressional Budget Office, infatti, riecheggiando l’umore prevalente a Washington, appare soddisfatto con proiezioni che vedono i tassi di disoccupazione continuamente vicini al 6% lungo un tempo indeterminato. Per quelli che hanno anche un interesse minimo verso la situazione dei disoccupati e dei senzatetto, un simile atteggiamento appare insensibile fino all’estremo.

Noi non usciremo dalla stasi economica finché continueremo ad essere governati da nozioni fallaci che si basano su false analogie, analisi unilaterali, ed un implicito assunto di base controfattuale di un livello inevitabile di disoccupazione. Peggio ancora, potremmo ben trovarci in una situazione analoga a quella del 1926, quando, secondo l’ortodossia dell’epoca, il debito accumulato durante la Prima guerra mondiale era qualcosa che doveva essere pagato il più rapidamente possibile. Di conseguenza, il potere d’acquisto veniva assorbito dal flusso di reddito interamente dalle tasse ed utilizzato per ripagare il debito. Gli importi versati per ritirare le obbligazioni non venivano considerati dai destinatari come reddito da spendere, in modo che la domanda dei consumatori non crebbe sufficientemente per mantenere il livello di occupazione e la disoccupazione aumentò notevolmente nel periodo 1926-1928 fino al 1929. Per converso, i proventi furono stati usati per far salire i prezzi degli asset. Per un periodo questo rallentamento della crescita venne moderato dall’euforia creata dagli accantonamenti corrispondenti da redditi da capitale e dal conseguente tasso maggiore di spesa. Ma nemmeno il più facile finanziamento offerto dai maggiori rapporti prezzo/utili dei titoli poteva spingere stimolare la capacità di espansione molto oltre la capacità della domanda di fornire vendite remunerative, e quando ci si rese conto che ulteriori aumenti dei prezzi degli asset non potevano essere giustificati dal rallentamento degli aumenti della domanda di prodotti, le plusvalenze cessarono di aumentare e il sistema finì nella depressione del 1930.

Il parallelo con la situazione attuale è che, anche se non stiamo pagando un debito, in relazione alla situazione attuale la riduzione del deficit è comparabile alla riduzione della contribuzione netta del governo al reddito disponibile. Nelle sue proiezioni il Congressional Budget Office sembra scontare quasi completamente l’effetto di una diminuzione di tale riciclo sul livello di attività. Al contrario, il CBO presuppone che se questo riciclo sia ulteriormente ridotto con un programma di pareggio di bilancio il risultato sarà un leggero aumento del tasso di crescita del PIL dello 0,1% l’anno, piuttosto che una diminuzione (The Economic and Budget Outlook, May, 1996, pp. 1-3).

A quanto pare si è ipotizzato che la riduzione del disavanzo indurrà il Consiglio della Federal Reserve ad abbassare i tassi di interesse, e che questo porterà ad un aumento delle attività di investimento. Ma sembra improbabile che ci sia qualcosa che il Consiglio della Federal Reserve vorrebbe o potrebbe fare che potrebbe contrastare, durante un qualsiasi periodo di tempo prolungato, lo scoraggiamento agli investimenti inerenti alla riduzione della domanda di mercato risultante dalla riduzione del meccanismo di reinvestimento del governo sul reddito. C’è, infatti, una tendenza a sovrastimare l’effetto di lungo periodo delle variazioni dei tassi di interesse sui tassi di investimento a seguito di osservare le risposte di breve-medio periodo dei flussi di investimento rispetto alle variazioni dei tassi di interesse. Una volta avutesi (tali riduzioni dei tassi), le scorte di capitali raggiungono un livello corrispondente al tasso di interesse più basso, ed ulteriori investimenti scenderanno a livelli prossimi al suo precedente tasso. Questo è un po’ come il corso d’acqua nelle gare dei mulini che può essere aumentato per un po’ di tempo abbassando la parte superiore della diga, ma il flusso ritornerà al suo livello precedente non appena la superficie della diga si abbassa corrispondentemente. L’azione del Consiglio della Federal Reserve può essere in grado di rinviare, ma non di superare, le conseguenze di un inadeguato reinvestimento dei risparmi nei redditi da parte del governo.

Se si dovesse effettivamente condurre un programma di pareggio di bilancio, l’analisi precedente indica che prima o poi un incidente paragonabile a quello del 1929 si avvererebbe quasi certamente. Per essere precisi, sarebbe probabilmente un evento meno grave della depressione del 1930 a causa dei molti fattori di tutela che sono state introdotti successivamente, e l’entusiasmo per la ricerca del “Santo Graal” costituito dal pareggio di bilancio può rarefarsi a fronte di un approfondimento della recessione, ma le conseguenze del tentativo fallito sarebbero ancora gravi. Per assicurarci contro un tale disastro e avviarci sulla strada della vera prosperità è necessario abbandonare la nostra ossessione ideologica non motivata verso la riduzione dei disavanzi pubblici, riconoscere che è l’economia e non il bilancio dello Stato che ha bisogno di bilanciamento in termini di domanda e offerta degli assets, e procedere per reinvestire i tentativi di risparmio nei flussi di reddito ad un tasso adeguato, in modo che non svaniscano semplicemente nella diminuzione degli incassi, delle vendite, della produzione e dell’occupazione. C’è persino un pranzo gratis là fuori, davvero molto sostanzioso. Ma richiederà sempre di essere libero dai dogmi degli apostoli dell’austerità, la maggior parte dei quali non prenderebbe parte ai sacrifici che consigliano agli altri. In mancanza di questo ci troveremmo tutti a pattinare su del ghiaccio molto sottile.


Brexit, ex governatore della Banca d’Inghilterra King: “Londra sia pronta a uscire dall’Ue anche senza accordo”

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Articolo tratto da IL FATTO QUOTIDIANO del 9 aprile 2017

Per l’ex banchiere centrale uscire dall’euro “è una decisione politica: dipende quanta disoccupazione la gente è disposta ad accettare e per quanto tempo. Ma se continuiamo così ci sarà presto un’altra crisi come quella del 2010 e 2011”

A 69 anni Mervyn King, che ha guidato la Banca d’Inghilterra dal 2003 al 2013, attraverso la crisi finanziaria, è libero di rimettere in discussione le fondamenta stesse dell’economia. Come nel libro La fine dell’alchimia – il futuro dell’economia globale, che esce ora in Italia per il Saggiatore.

Professor King, la premier Theresa May ha avviato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Alla fine ci sarà un buon accordo per gli inglesi?
Non lo sappiamo. Il tema principale del libro è che governi e banche hanno fatto l’errore di pensare di poter predire il futuro mentre dobbiamo rassegnarci a una incertezza radicale. Nessuno, 10 anni fa, poteva immaginare che il tema della Brexit avrebbe dominato l’agenda, così come nel resto d’Europa nessuno si aspettava che la libertà di movimento delle persone sarebbe stata messa in crisi da una migrazione di massa verso l’Ue. Non sappiamo come i negoziati procederanno. Molti dei soggetti coinvolti hanno una loro agenda personale e quindi potrebbe non essere saggio presupporre che tutti, collettivamente, si comporteranno in modo razionale.

E quindi?
La Gran Bretagna deve essere pronta a uscire dall’Unione anche senza aver raggiunto alcun accordo. Ma non credo che sia un problema drammatico, potremo comunque commerciare con il resto dei Paesi dell’Ue sulla base delle regole del Wto. E nei confronti di Usa e Cina saremmo alla pari con l’Ue, visto che non esistono accordi commerciali europei con loro. Se diventa chiaro al resto dell’Europa che siamo pronti ad andarcene anche senza accordi, tutti capiranno che è interesse comune avere almeno un’intesa sul commercio di prodotti industriali.

E’ il dilemma del prigioniero: chi farà la prima mossa?
Esatto, dobbiamo prepararci a due anni di grande confusione, con politici e giornali che annunceranno spesso l’imminente collasso del negoziato. Ma su entrambi i fronti penso ci sia una certa determinazione ad avere almeno un accordo sul commercio. Ma ciascuna delle due parti deve avere ben chiaro quali sono i paletti dell’altra: la Gran Bretagna non è disposta a rendere la propria politica di immigrazione parte del negoziato, e la minaccia da parte europea di ricorsi alla Corte di Giustizia non è reale perché dopo la Brexit non avrà più autorità.

E se Londra esce senza accordo non avrà pesanti ricadute economiche, visto che da un giorno all’altro verrà disapplicata tutta la normativa di origina europea?
Dovremo fare un po’ più di formalità alla dogana, qualche modulo aggiuntivo. Ma nessun dramma. La Francia non ha alcun accordo doganale o di libero scambio con gli Usa, eppure mi sembra che riescano bene a commerciare. E all’aeroporto adatteremo le macchine per lo scan dei passaporti a leggere anche quelli europei. Fra 50 anni chi guarderà l’andamento del Pil inglese negli ultimi decenni, non sarà in grado di capire dalla curva il momento della Brexit.

Ma è stata una scelta razionale o emotiva quella degli inglesi al referendum del 23 giugno?
E’ stata la peggiore campagna politica della mia vita. Nessuno dei due campi era disposto a concedere qualcosa all’altro, ma entrambi avevano molti argomenti razionali. Il governo ha  fatto un terribile errore a esagerare le conseguenze del leave e sostenere che ogni famiglia avrebbe perso 4300 sterline. Come potevano saperlo? Nessuno era in grado di prevederlo, è un salto nell’ignoto. Non possiamo neanche sapere come sarà l’Ue tra 4-5 anni, potrebbe anche assomigliare molto al tipo di Ue che andrebbe bene agli inglesi. Ma potrebbe anche evolversi verso l’unione politica, e allora sarebbe stato razionale per la Gran Bretagna andarsene prima.

Come si spiega questo aumento di ostilità verso l’Europa da parte degli inglesi?
I politici hanno sempre sostenuto che non avremmo perso sovranità unendoci all’Ue e questo si è rivelato completamente falso. Avrebbero dovuto dire che in alcune aree condividevamo sovranità perché questo era nel nostro interesse nazionale. Negare la questione quando il 60 per cento di tutta la legislazione è europeo e quando la legge europea vale come precedente nel diritto inglese, è assurdo. La gente si chiede: se siamo la quinta economia del mondo, perché il nostro Parlamento non può fare da solo le sue leggi? Il governo ha sostenuto per anni che avrebbe controllato l’immigrazione, ma non è successo. La società è cambiata in una direzione che i politici avevano escluso, per questo le persone hanno perso fiducia.

Non crede che condividere sovranità sia talvolta il modo di preservarla? Gestire l’immigrazione da soli, per esempio, non sembra fattibile.
Quando è stata introdotta la libertà di movimento sembrava un’ottima idea. Potevi trasferirti e vivere in un altro Paese e continuare a svolgere la tua professione di dottore o di professore. Ma nessuno aveva immaginato il problema che stiamo affrontando ora: migrazioni su larga scala da Africa, Medio Oriente e Asia. L’idea originale della libertà di movimento era tra Francia e Germania e Italia o Gran Bretagna, nessuno pensava a migranti con altre lingue, culture, o al terrorismo islamico.

E’ sensato cercare di riappropriarsi della sovranità sulla moneta per i Paesi dell’Eurozona?
Sul commercio è sensato condividere la sovranità, anche se i governi non sono mai stati molto bravi a spiegarlo perché si muovevano con una logica politica e non economica. La Gran Bretagna non ha mai condiviso la logica politica dell’integrazione – “ever closer union” – ma è sempre stata consapevole dei benefici che derivano dal libero commercio, con un convergenza su standard tecnici, qualità ecc. E’ molto meno chiaro se la condivisione di sovranità può portare gli stessi benefici con una unione monetaria, che probabilmente è stata prematura. Il mio libro spiega che è stata una enorme scommessa: non c’era convergenza nelle aspettative di inflazione quando, nel 1999, si è deciso di fissare lo stesso tasso di interesse in tutti i Paesi dell’eurozona.

Con quali conseguenze?
L’aggiustamento del tasso di interesse reale, cioè tasso di interesse meno inflazione o aspettative di inflazione, è stato troppo lento in Paesi come Spagna e Italia e troppo alto in Germania o Olanda. L’economia è cresciuta troppo in Italia e Spagna, con bolle immobiliari. E i Paesi alla periferia hanno perso competitività molto in fretta ed è difficile recuperarla: l’unico modo per ridurre i salari è stato creando disoccupazione e questo è quello che è successo. La disoccupazione in Spagna è incredibilmente alta, anche in Italia è tuttora sopra il 10 per cento. Mentre in Uk o Usa dove hanno la loro moneta, è sotto il cinque per cento. La domanda è se è il costo è politicamente sostenibile.

Quindi dobbiamo rischiare l’azzardo di uscire dall’euro?
E’ una decisione politica: dipende quanta disoccupazione la gente è disposta ad accettare e per quanto tempo. Ma se continuiamo così ci sarà presto un’altra crisi come quella del 2010 e 2011. Se un Paese lascerà l’euro non sarà piacevole, ma non sarà neppure un disastro: va confrontato con l’alternativa, e se è un altro decennio di bassa crescita e alta disoccupazione… Certo, ci sarebbe un periodo di caos, almeno in apparenza, ma nel giro di un paio di anni l’economia fuori dall’euro tornerebbe a crescere rapidamente.

Che soluzioni suggerisce?
I leader dovrebbero andarsene da qualche parte per un weekend, senza giornalisti e senza comunicati, e discutere sulle quattro opzioni che hanno davanti, di cui parlo nel libro: 1) continuare così con alta disoccupazione nei Paesi periferici in eterno 2) accettare l’inflazione in Germania 3) Germania e Olanda pagano per gli altri 4) rompere l’euro. Una combinazione di queste opzioni è inevitabile, continuare come se niente fosse è impossibile.

La Bce ha tenuto insieme l’euro e il sistema finanziario, applicando ricette politiche basate sulle idee che lei nel libro mette in discussione.
Non aveva altra scelta. Dopo aver creato la moneta unica si è scoperto che la convergenza auspicata non si è mai verificata, ma non è possibile ora ricominciare da capo, aggiustando con una svalutazione una tantum i tassi di cambio tra i vari Paesi e poi tornando nell’unione monetaria. E’ una possibilità ma molto rischiosa. Ma l’unica cosa che permette ai Paesi periferici di continuare a finanziarsi è avere bassa crescita e alta disoccupazione: importante così poco che non c’è alcun deficit delle partite correnti da finanziare. Ma se questi Paesi tornassero alla piena occupazione, si troverebbero con un deficit commerciale crescente senza avere alcuna possibilità di finanziarlo perché i mercati non avrebbero alcun incentivo a finanziare chi si trova ad aver bisogno costante di prestiti perché non ha la possibilità di aggiustare il tasso di cambio per compensare lo squilibrio.

L’Italia però continua a trovare finanziamenti, con bilanci in deficit, anche se continua ad accumulare debito.
Questo succede perché i mercati sanno che non stanno finanziando davvero voi, ma la Germania, la Bce e tutta l’Unione monetaria. E questo è un problema: c’è un’incoerenza tra questo tipo di aspettative e quelle dominanti in Germania.

Il tasso di interesse reale per i tedeschi è troppo basso e questo gonfia la loro competitività, generando enormi surplus commerciali. Ma avranno uno shock quando dovranno prendere atto che nessuno può ripagare loro i soldi investiti all’estero. Non riavranno mai i loro soldi e a un certo punto dovranno svalutare questo “attivo”. Prima o poi capiranno che non sono così ricchi come credono e che non hanno grandi vantaggi da essere così competitivi. E a un certo punto il tasso di interesse reale dovrà salire, o perché escono dall’euro, o perché arriva l’inflazione in Germania, o perché un altro Paese diventa più competitivo. Nel lungo periodo, la loro posizione è insostenibile.

Carinzia in bolletta: il Land a un passo dal crac

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Un mese, al massimo un mese e mezzo. Il Land Carinzia non può sopravvivere più a lungo di così con le sole proprie risorse. Già dal primo di questo mese ha bloccato tutte le uscite facoltative. Si paga solo ciò che è necessario: stipendi, luce elettrica, soccorso stradale… Tutto il resto è fermo o rinviato a tempo indeterminato. Via anche lo storico contributo una tantum per le mamme… <<<leggi>>>

http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2015/04/23/news/il-land-carinzia-in-bolletta-a-un-passo-dal-crac-1.11285739

Confindustria: così la Germania ha abbassato il benessere nell’Eurozona

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Il Centro studi analizza come i Paesi della ‘periferia’ abbiano corretto i loro deficit nei conti con l’estero, mentre il saldo di Berlino è rimasto a un livello (7% del Pil) superiore al limite dei trattati Ue. Così si è generata una spirale di indebolimento di domanda, occupazione e redditi… <<<leggi>>>

…”per aggiustare i conti i Paesi in deficit hanno dovuto recuperare competitività di prezzo e ridimensionare gli standard di vita, generando deflazione e riduzione della domanda che non sono state compensate, come sarebbe stato logico e opportuno, da politiche espansive nei paesi in surplus, Germania anzitutto”…

http://www.repubblica.it/economia/2015/01/17/news/confindustria_cos_la_germania_ha_abbassato_il_benessere_nell_eurozona-105142327/?ref=HRLV-5

Perché la Francia è lontana dai parametri di Maastricht ma lo spread di Parigi dorme

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Secondo gli analisti uno dei punti di forza su cui si regge la Francia in questa fase di difficoltà dell’Europa e la sua vicinanza geografica e politica con la Germania. Per questo motivo lo spread tra Oat francesi e Bund tedeschi viaggia intorno ai 60 punti, livelli che l’Italia non vede ormai da cinque anni… <<<leggi>>>

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2013-02-20/francia-crisi-conti-091827.shtml?uuid=AbQgY8VH