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Finanziamenti Comunitari – La finta solidarietà dell’unione europea

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[pullquote]…..Il cofinanziamento impone agli Stati che intendano beneficiare dei fondi comunitari di aggiungere alla quota proveniente dall’Europa una quota di risorse proprie, che vengono distratte da altri scopi… Come mette in luce l’autrice, molto spesso alla radice del mancato impiego dei fondi comunitari troviamo la mancanza di risorse per il cofinanziamento, piuttosto che una tara genetica del popolo italiano o della sua pubblica amministrazione…[/pullquote]

Condizionalità senza frontiere (quello che non dovevate sapere dei finanziamenti comunitari)

(…è uscito un libro che non dovete leggere. Si chiama Finanziamenti comunitari – Condizionalità senza frontiere. Lo ha scritto Romina Raponi e spiega come funzionano realmente i finanziamenti comunitari. Leggerlo nuoce gravemente alla salute. Gli effetti collaterali sono: esofagite, gastrite, insonnia, sindrome depressiva, problemi cardiovascolari. Io vi ho avvertito, voi fate come vi pare. Meglio conservarsi in salute, piuttosto che capire perché chi vi dice “eh, ma noi non riusciamo nemmeno a spendere i fondi europei!” è un perfetto imbecille. D’altra parte, quando non avevamo capito un cazzo, possiamo anche dircelo, stavamo tutti meglio… In ogni caso, quella che segue è la mia prefazione – così gli effetti collaterali li subite ugualmente!…)

“Ce lo chiede l’Europa!” Quante volte ce lo siamo sentiti dire, in questi ultimi anni? Col passare del tempo, però, la retorica patriottarda di questo ritornello (“siam pronti alla morte, l’Europa chiamò!”) si sta sgretolando. È la realtà a inseguire e raggiungere chi non sia stato già convinto per tempo dalle tante autorevoli analisi, come quella di Luciano Canfora (È l’Europa che ce lo chiede! Falso!, Laterza, 2013), o quella di Giandomenico Majone (Rethinking the unionof Europe post crisis, Cambridge University Press, 2014). Lo sfaldamento dei due pilastri della costruzione comunitaria (la libera circolazione dei capitali, cioè Maastricht, e la libera circolazione del lavoro, cioè Schengen) oppone ogni giorno all’esclamativo categorico del “ce lo chiede l’Europa!” una schiera di interrogativi: Europa chi? Europa come? Europa perché? Europa quando?

A scongiurare l’esercizio dello spirito critico interviene allora un grande classico della gestione paternalistica dei conflitti: il senso di colpa. “Ma come? Porre in questione l’Europa, proprio questa Europa che fa tanto per noi, con i suoi finanziamenti comunitari, quei finanziamenti che noi, Untermenschen, evidentemente non meritiamo, perché non siamo in grado nemmeno di spenderla, questa cuccagna, e sì che ci sarebbe preziosa per recuperare il nostro colpevole ritardo…”

Anche questo discorsetto lo avrete sentito fare, no?

FinanziamentiComunitari_RominaRaponiIl libro di Romina Raponi viene molto opportunamente a colmare un vuoto. Mentre, come abbiamo visto, non mancavano analisi accurate dell’esclamativo categorico (“l’Europa chiamò!”), la favoletta deamicisiana (“Franti, tu uccidi l’Europa che ti eroga i finanziamenti comunitari!”) non era ancora stata oggetto di adeguato scrutinio scientifico. Non erano mancati, in testi più divulgativi come Non vale una lira di Mario Giordano (Mondadori, 2014), cenni di divertita (e documentata) insofferenza verso il mito dei finanziamenti comunitari, destinati ovunque (non solo in Italia) a scopi dalla logica non sempre immediatamente intelligibile. E non era mancata, nello stesso testo, e con sempre maggior frequenza nei media di regime, un’amara sottolineatura del fatto che in fondo noi non dovremmo sentirci in colpa con l’Europa, visto che in ogni caso siamo suoi contribuenti netti (ovvero, le versiamo, a spanna, oltre 5 miliardi in più di quanti ce ne ritornino).

Attenzione: quest’ultimo dato colpisce (come colpiscono gli aneddoti, meno estemporanei di quanto si creda, sulla curvatura dei cetrioli o sullo zoo per coccodrilli in Danimarca, oggetto della perfidia di Giordano), ma in fondo non dovrebbe sembrare anomalo. L’Italia è (o meglio, prima dell’euro, era) un paese relativamente avanzato nel consesso europeo, e sarebbe quindi stato del tutto fisiologico che, in un’ottica di comune e solidale percorso verso un radioso futuro, essa contribuisse in termini netti allo sviluppo degli altri paesi europei, quelli meno avanzati. Ecco, parliamo un po’ di solidarietà… Perché è proprio se si affronta il tema sotto questo profilo, come l’autrice fa con lucidità analitica e perizia documentale, che ci si rende conto che le cose stanno molto, ma molto peggio di come aneddoti e saldi (entrambi negativi) ce le dipingono.

In effetti, che l’Europa (?) non nasca sotto il segno della solidarietà a un economista dovrebbe essere immediatamente evidente. Ho chiarito nei miei scritti che questo orientamento traspare dalla scelta di articolare la politica di bilancio sul concetto di “convergenza” (intesa come rispetto di parametri di bilancio fissi), anziché di “integrazione”. Integrazione, in economia, significa in generale abbattimento dei costi di transazione. L’integrazione fiscale è quindi l’abbattimento dei costi di transazione (costi economici e politici) delle politiche di trasferimenti fra aree in espansione e aree in recessione, trasferimenti necessari per un equilibrato percorso di crescita comune. Penso sia chiaro anche ai non tecnici che costringere paesi diversi ad avere la stessa politica di bilancio (convergenza) è cosa ben diversa dal creare un meccanismo (un bilancio federale) che funga, come negli Stati Uniti, da “camera di compensazione” automatica degli squilibri macroeconomici fra enti federati (integrazione). Il primo approccio, e la crisi lo ha dimostrato, amplifica gli squilibri, anziché compensarli, perché obbliga a tagli chi si trova in crisi (le famose politiche procicliche o di austerità – che poi sono procicliche verso il basso, visto che se chi è in crisi deve tagliare, chi non lo è ben si guarda dallo spendere per contribuire alla crescita comune: altro chiaro segno di asimmetria e di mancanza di solidarietà).

Ma l’analisi giuridica del fenomeno consente di andare oltre. Da essa emerge chiaramente come i finanziamenti comunitari, concepiti come strumento di compensazione degli squilibri fra paesi membri (strumento di cui l’autrice rileva il carattere necessariamente imperfetto perché esiguo rispetto al compito proposto; perché legato unicamente a parametri dimensionali – il peso del paese sul totale del Pil europeo – e non ai fondamentali macroeconomici – ad esempio, il saldo estero del paese; perché a vocazione strutturale e non congiunturale, e quindi incapaci di offrire protezione efficace contro shock avversi come quelli determinati dalla crisi finanziaria), siano nella prassi un meccanismo di amplificazione di questi squilibri, amplificazione che interviene attraverso il ricorso ai due principi di cofinanziamento e condizionalità.

Il cofinanziamento impone agli Stati che intendano beneficiare dei fondi comunitari di aggiungere alla quota proveniente dall’Europa una quota di risorse proprie, che vengono distratte da altri scopi, pur entrando, ovviamente, nel computo della spesa pubblica. Si realizza così un paradosso della virtù: chi vuole virtuosamente profittare della manna europea deve, ahimè, mettere in conto di incrementare viziosamente la propria spesa pubblica (a meno che non decida di tagliare altri servizi). Come mette in luce l’autrice, molto spesso alla radice del mancato impiego dei fondi comunitari troviamo la mancanza di risorse per il cofinanziamento, piuttosto che una tara genetica del popolo italiano o della sua pubblica amministrazione (secondo la linea interpretativa propostaci dei nostri media). Ora, dato che l’erogazione di fondi è articolata su cicli di programmazione pluriennale decisi in modo più o meno cooperativo nelle sedi europee, cicli che quindi non necessariamente, o non interamente, rispecchiano le imminenti priorità strategiche dei singoli paesi, la conseguenza alla quale giunge in modo difficilmente oppugnabile l’autrice è che in realtà i fondi comunitari sono un meccanismo particolarmente subdolo di controllo da parte dell’Europa delle politiche di spesa dei paesi membri.

A questo condizionamento implicito, si aggiunge anche una esplicita condizionalità, intesa nel senso infausto che a questo termine ha dato la prassi del Fondo Monetario Internazionale all’epoca del Washington Consensus. L’erogazione delle risorse “comunitarie” viene subordinata non solo al reperimento delle risorse per cofinanziare i progetti, ma anche al conseguimento di obiettivi programmatici specifici. Insomma: ti do i soldi non solo se ci fai quello che dico io, non solo se ce ne metti su altrettanti, ma anche se hai fatto il bravo. Dove, peraltro, “fare il bravo” per Bruxelles significa essenzialmente tagliare, obiettivo incompatibile, come abbiamo già ricordato, con la richiesta di cofinanziamento.

A questo punto non stupisce che abbia espresso perplessità su questo meccanismo anche un economista pienamente mainstream come Roberto Perotti, uno dei falchi della cosiddetta “austerità espansiva”, cioè dell’idea, fortissimamente sponsorizzata dalla Commissione e dalla Bce, che chi “fa la cosa giusta” (cioè taglia) verrà poi premiato dal mercato. Secondo Perotti, forse l’Italia risparmierebbe, se invece di far circolare le somme per Bruxelles le spendesse in proprio. Se perfino un “Bocconi boy” (definizione di Oddný Helgadóttir nel Journal of European Public Policy del 2015) giunge a una conclusione che, in sede politica, abbiamo sentito articolare esplicitamente solo a Marine Le Pen (ma a porte chiuse a qualsiasi politico italiano), è chiaro che qualcosa non torna.

Il testo di Romina Raponi si presenta quindi come tappa fondamentale nel percorso, che necessariamente dovremo affrontare, di decostruzione del mito irenico ed escatologico dell’Europa che dà la pace e la prosperità, di doloroso ma imprescindibile abbandono dell’europeismo del “dover essere” (come lo definisce Alfredo D’Attorre), di elaborazione di un lutto col quale dobbiamo fare rapidamente i conti, allo scopo di evitare che più gravi lutti vengano a turbare in modo irrimediabile il percorso comune dei popoli europei.

http://goofynomics.blogspot.it/2016/02/condizionalita-senza-frontiere-quello.html

http://orizzonte48.blogspot.it/2016/02/finanziamenti-comunitari-condizionalita.html

 

L’Italia può farcela

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La crisi dei mutui subprime è scoppiata nel 2007, e dagli Stati Uniti ha contagiato l’intera economia globale. Oggi, mentre il resto del mondo è in ripresa, in Europa stiamo ancora parlando di debiti. Perché? È ormai chiaro che terapie sbagliate come l’austerità hanno solo peggiorato le cose. Occorre una diagnosi più accurata, capace di risalire alle origini dei nostri problemi.

Chi è stato a indebitarsi così tanto, e per quale motivo? Da chi ha avuto i soldi? Perché solo in Italia e in Europa non ne stiamo venendo fuori? Alberto Bagnai dimostra che le radici della crisi europea affondano nell’iniqua distribuzione del reddito che da più di trent’anni caratterizza tutte le economie avanzate. Con la globalizzazione finanziaria, i salari reali hanno perso terreno rispetto alla produttività del lavoro, a tutto vantaggio dei profitti. Ma perché il capitalismo funzioni, se non è sostenuta dai salari, la domanda di beni deve essere finanziata dal debito. Da una situazione in cui il lavoratore è un cliente, si è passati a una realtà in cui il lavoratore è un debitore.

È il trionfo del capitale sul lavoro, ma anche il fallimento del paradigma economico liberista. In Europa, la moneta unica ha accentuato queste dinamiche globali. L’euro ha permesso ai cittadini del Sud di finanziare più facilmente il consumo di beni prodotti dal Nord, e li ha indotti ad accettare politiche di compressione dei salari e dei diritti, presentate come biglietto di ingresso nel club dei paesi «virtuosi». A questo si aggiunge, in Italia, un fenomeno senza paragoni nel panorama mondiale: l’autorazzismo, ciò che Gadda chiamava «la porca rogna italiana del denigramento di noi stessi».

È così che ha preso piede la filosofia antidemocratica del vincolo esterno, condivisa da tutti i partiti politici della Prima e della Seconda Repubblica al grido di «ce lo chiede l’Europa!»: un sistema discutibile anche quando l’Europa sembrava in salute; ora che sta fallendo, è giunto il momento di riacquistare un più alto senso di dignità e solidarietà nazionale, e cambiare strada. Dopo Il tramonto dell’euro, Alberto Bagnai propone la sua formula per evitare il disastro, con lo stile appassionato e il rigore analitico che lo hanno reso un punto di riferimento nel dibattito  contemporaneo.

La soluzione alla crisi italiana ed  europea passa per il recupero della piena sovranità economica degli Stati e il ritorno alle valute nazionali, condizione necessaria per ristabilire l’equilibrio fra i paesi membri dell’Unione e restituire loro piena legittimità democratica. Solo così si potranno elaborare e mettere in pratica politiche economiche espansive, ispirate al principio di equità. Solo così l’Italia potrà farcela.

Il tramonto dell’euro

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Ne “Il tramonto dell’euro” Alberto Bagnai muove guerra ai luoghi comuni sull’economia che imperversano ormai da tempo in qualsiasi talk-show televisivo. La crisi della zona euro è prima di tutto una crisi politica, che discende dalla mancata volontà dei partecipanti di trovare soluzioni cooperative. Ecco perché può esistere un nuovo “europeismo antieuro”.

di Gennaro Zezza*

A giudicare dalla frequenza delle ristampe, “Il tramonto dell’euro” (euro 17, pp.414), scritto da Alberto Bagnai per Imprimatur, sta avendo un meritato successo. Il libro riorganizza ed integra l’analisi della situazione dell’area euro che l’autore ha costruito progressivamente sul suo blog (goofynomics.blogspot.it) nel corso di diversi mesi, stimolando interessanti dibattiti con i lettori del blog stesso.

Il blog ed il libro partono da una constatazione molto condivisibile: il dibattito sui temi economici che arriva dai mass media in Italia è talmente distorto, ideologico e in contrasto con i dati, da rendere urgente operazioni di divulgazione che ristabiliscano semplici verità, spesso di una banalità sconcertante: il titolo del blog, goofynomics da Goofy, il nome americano di Pippo, deriva da una battuta del personaggio Disney: “È strano come, vista dal basso, una discesa somigli ad una salita”. Passando all’economia, lo stesso principio si traduce nel fatto che un taglio della spesa pubblica (denaro in uscita) è un taglio dei redditi (denaro in entrata) di qualche dipendente o fornitore pubblico; il debito pubblico è anche credito, ossia ricchezza, per qualcun altro; se una moneta si svaluta ce n’è un’altra che si rivaluta, e così via.

Armato di queste semplici verità, oltre che di sedimentati modelli interpretativi, ne “Il tramonto dell’euro” Bagnai muove guerra al “luogocomunismo”, un suo neologismo che sintetizza posizioni sentite fino allo sfinimento in qualsiasi talk-show televisivo, ma anche nelle dichiarazioni di molti politici, a destra come a sinistra.

Si incomincia col demolire la “beatificazione” degli investimenti esteri, che tutti sembrano desiderare dimenticando che questi investimenti non sono altro che l’acquisizione di società italiane profittevoli (difficilmente gli investitori esteri fanno beneficenza), cui seguiranno in futuro riduzioni nel reddito nazionale, quando i profitti verranno trasferiti al nuovo proprietario all’estero.

Si passa poi a ricordare che un Paese che basi la sua crescita sulle esportazioni, generando un surplus commerciale, ha bisogno di almeno un altro Paese disponibile ad avere un deficit commerciale. Squilibri commerciali si rispecchiano in squilibri finanziari: se l’Italia compra più merci dalla Germania di quante non riesca a venderne, vedrà aumentare il suo debito estero netto. Il surplus commerciale si può sostenere solo fin quando il Paese in surplus è disposto a finanziare i suoi partners. E una volta creati gli squilibri commerciali, se si pretende che i debitori rimborsino i loro debiti, i Paesi in deficit dovranno sottrarre risorse da indirizzare all’estero, generando una recessione che a sua volta ridurrà gli acquisti dal Paese in surplus, che a sua volta vedrà sì aumentare i redditi dei creditori, ma vedrà anche crollare le vendite delle sue imprese. Né si può proporre a tutti i Paesi in deficit di adottare a loro volta politiche di crescita basate sulle esportazioni: se tutti esportano, chi acquista?

Bagnai demolisce poi la demonizzazione delle svalutazioni, mostrando che in Italia queste sono servite – prima dell’euro – a ripristinare perdite di competitività, piuttosto che come politiche commerciali aggressive, e che il loro impatto sull’inflazione è stato modesto.

Fatta piazza pulita dei luogocomunismi, Bagnai mostra come l’impianto istituzionale che governa la zona euro sia destinato al fallimento, come già autorevoli economisti avevano previsto prima della sua istituzione, per la mancanza di meccanismi di aggiustamento a fronte degli inevitabili squilibri che emergono in un’area che adotta una valuta unica ma che ha tassi di inflazione e livelli di sviluppo differenti, e mercati del lavoro non integrati. Se i Paesi dell’area euro avessero voluto effettivamente perseguire gli obiettivi dell’unificazione, in primis garantire lavoro e benessere ai cittadini europei, le priorità politiche sarebbero state altre, e non si sarebbero tollerate politiche neo-mercantiliste che non potevano che generare squilibri insanabili. La crisi della zona euro è quindi prima di tutto una crisi politica, che discende dalla mancata volontà dei partecipanti di trovare soluzioni cooperative.

Stando così le cose, è inevitabile il tramonto dell’euro ed il ritorno a valute nazionali, con una previsione di svalutazione della neo-lira dell’ordine del 20% sul neo-marco, o meglio con un modesto apprezzamento del neo-marco sulle altre valute della periferia. Con il ritorno a valute nazionali è possibile – ma non scontato – il ritorno alla sovranità monetaria e alla possibilità di finanziare deficit pubblici a basso costo, come già in Italia fino al “divorzio” del 1981 tra banca centrale e Tesoro. Ripristinando il controllo sulle modalità del finanziamento dei deficit pubblici, si può finalmente tornare ad indirizzare la politica economica verso quella che ci sembra la priorità assoluta: l’eliminazione della povertà e della disoccupazione.

Quel che ho apprezzato in particolare ne “Il tramonto dell’euro” è lo spirito di fondo davvero europeista, e lo sforzo di proporre nuove istituzioni – in particolare nuovi meccanismi di gestione delle valute – che consentano la cooperazione tra i Paesi europei verso uno sviluppo equilibrato dei singoli Paesi. Cosa ben diversa dalla attuale contrapposizione mediatica tra “europeisti”, che nel difendere le attuali istituzioni europee perpetuano meccanismi di salvaguardia dei creditori (i sistemi finanziari dei Paesi centrali) a danno dei Paesi periferici, con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi in Grecia, Portogallo, Spagna e sempre di più anche in Italia, e “populisti” che nel contrapporsi ai primi fanno leva su sentimenti nazionalisti che dubito possano essere sufficienti a risolvere gli attuali problemi europei.

Il libro è scritto in modo brillante, e con un approccio divulgativo che, ci auguriamo, sarà utile a farne un punto di riferimento importante nel dibattito italiano.

* Dipartimento di Economia e Giurisprudenza, Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale (14 dicembre 2012)

Articolo tratto da Micromega del 14 dicembre 2012, “Abbandonare l’Euro per ritrovare l’Europa

Un altro commento del libro a cura di Sergio Cesatatto su Politica&EconomiaBlog del 3 aprile 2013

 

LINK al capitolo del libro tagliato per motivi di spazio: “Il romanzo di centro e di periferia”