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M5S, online il primo capitolo di ‘Supernova’: rottura tra Grillo e Casaleggio

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L’ultima telefonata. Supernova è il racconto di una rivoluzione fallita. E il titolo, che indica un’esplosione stellare, non è casuale. Scrivono ancora gli autori nell’introduzione: “Una rivoluzione allegra, pulita, sincera. Fallita nel più triste degli inganni, come un incubo che prende vita giorno dopo giorno”. Il libro narra anche la storia di una frattura insanabile, quella tra Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, avvenuta pochi giorni prima della morte di quest’ultimo. Il primo capitolo da oggi in Rete si intitola “L’ultima telefonata”, quella intercorsa, appunto, fra i due fondatori del Movimento: “La voce è un grido e il grido è un ‘Vaffanculo’ – si legge nelle prime pagine – Solo che non c’è una folla acclamante davanti, e non c’è una piazza. C’è un uomo e quell’uomo è Beppe Grillo. E l’invito ad andare a quel paese è rivolto a lui. Al telefono. Da Gianroberto Casaleggio”. Pochi giorni dopo Casaleggio muore senza che Grillo abbia avuto la possibilità di chiarire con il suo amico.

Secondo gli autori di Supernova, quell’ultima telefonata “testimonia quello che il Movimento già non è più, spiega cosa sta diventando, descrive il rimpianto di Beppe per quello che sarebbe dovuto essere. È il paradigma di un nuovo assestamento strutturale che la ‘dirigenza’ sta perseguendo”. Nel silenzio della base degli iscritti, che è all’oscuro di tutto. Tre sono gli ‘attori’ del nuovo corso: Grillo, Davide Casaleggio che ha preso il posto del padre alla guida dell’azienda di famiglia  – la Casaleggio Associati – e il direttorio. “La posta è enorme – scrivono Canestrari e Biondo – chi ha accesso agli iscritti al blog e alla piattaforma Rousseau può mettere le mani sul Movimento”.

Il motivo dello scontro. All’origine dello scontro tra Beppe e Gianroberto c’è la migrazione dal blog beppegrillo.it a ilblogdellestelle.it, di cui il comico genovese non era stato informato, e la nascita di Rousseau. Grillo la prende male, spiegano gli autori di Supernova, perché in questo modo non c’è più il suo blog al centro delle attenzioni, “non è più il motore propulsore del Movimento”. Ma “Casaleggio sceglie di guardare oltre il vecchio sodale, tutelando da una parte la sua azienda, dall’altra accontentando le richieste dei parlamentari che fanno un pressing asfissiante perché vogliono a tutti costi un loro spazio che non sia all’ombra del blog di Grillo. E questo ovviamente al comico genovese non va giù”. Sono già alcuni mesi che si trova a disagio, si legge nel libro: “Grillo, fuori dal palco, nel Movimento conta sempre meno, soprattutto nella sua gestione quotidiana, ormai sempre più accentrata a Roma”. I due fondatori perdono progressivamente uomini nel Direttorio: solo Carla Ruocco e Roberto Fico restano loro fedeli, mentre Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, in piena ascesa romana, dopo la “Notte dell’Onestà” a Roma nel gennaio 2015 avrebbero affermato di poter fare a meno di Grillo. Meritandosi per questo l’appellativo di “ragazzini cattivi”, affibbiato loro dalla Ruocco.

L’insofferenza del direttorio. E così a fine luglio 2016, Di Maio e Di Battista salgono con gli altri membri del direttorio a Genova per parlare di tante cose, ma soprattutto di simbolo e proprietà del Movimento. Grillo diserta e manda all’incontro suo nipote Enrico, avvocato e vicepresidente dell’associazione Movimento Cinque Stelle, formata da Beppe, il nipote Enrico e il commercialista Enrico Nadasi. “Poco o nulla trapela su quell’incontro – racconta il libro – tutto rimane segreto. Ci sono casi in cui lo streaming è meglio non farlo”. Ma Roberto Fico si lascia scappare: “Noi siamo in mezzo tra Beppe e Davide”. I rapporti tra i due, infatti, sono tesissimi. “L’indomani dell’incontro di Genova – scrivono Biondo e Canestrari – i cinque del direttorio vanno a Milano proprio da Davide Casaleggio. E la frattura tra loro diventa pubblica per una forzatura di Casaleggio jr, che poco dopo l’incontro con il direttorio pubblica un post: ‘Da domani si vota sul nuovo statuto’. È uno strappo. Ma a quell’annuncio non segue più nulla, il silenzio. Fino ad oggi”.

Statuto e simbolo. Tanti parlamentari chiamano Grillo per sapere se davvero vuole lasciare il simbolo al direttorio, ma lui rassicura: “State tranquilli, non ci penso nemmeno”. E così, si legge in Supernova, “l’ultima spallata a Grillo viene sventata. Ma la resa dei conti è solo rimandata”. Rimane sul piatto la questione legale: “A chi appartengono gli iscritti del Movimento – si chiedono Canestrari e Biondo  – all’associazione Movimento Cinque Stelle o all’azienda Casaleggio Associati nei cui server sono contenuti tutti i loro dati? E chi li gestirà in futuro quando sarà pronto un nuovo statuto del Movimento?”. Quest’incertezza, sottolineano gli autori di Supernova, è anche il motivo per cui non sono stati rispettati i tempi annunciati per la pubblicazione del nuovo statuto: “Doveva essere pronto prima della prossima festa nazionale dei Cinque Stelle, che sarà a Palermo il 24 e 25 settembre. E se quella di Imola è stata l’ultima festa di Gianroberto Casaleggio, questa di Palermo che arriva tra mille difficoltà e imbarazzi, potrebbe essere davvero l’ultima festa di Beppe Grillo da leader del Movimento”.

Il liberismo che surroga religione e legge naturale nelle menti bovine che lo subiscono

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http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02/17/liberismo-e-dogma-dal-mito-alla-realta-prima-parte/2472703/

Nell’epoca della “morte di Dio”, sono sorte, come funghi, Innumerevoli “pseudo-religioni”. Tra queste ve n’è una che spicca per importanza: non ci riferiamo, ovviamente, a uno numerosi sincretismi che sono venuti alla luce nella modernità, come la teosofia o la “new age”, ma a qualcosa di assai più pervasivo e, al tempo stesso, dogmatico, ovvero al cosiddetto “liberismo”.

Ci duole constatare che ancora ai nostri tempi, vi sia qualcuno che ritiene il liberismo sia una teoria economica o socio-politica; purtroppo per loro non è così: esso rientra bensì nei canoni che definiscono le religioni. Già Walter Benjamin lo descrisse in questo senso, in un breve saggio dal titolo : “Il capitalismo come religione”, del quale riportiamo un breve passo:

“Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento di quelle preoccupazioni, di quelle pene e inquietudini a cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni […] Il capitalismo è una religione cultuale, forse la più estrema che sia mai esistita. In esso tutto ha significato solo in immediata relazione al culto […], questo culto è generatore di colpa, indebitante. Il capitalismo con ogni probabilità è il primo culto che non redime il peccato, ma genera colpa”. Anche se Benjamin parla di “capitalismo”, e non direttamente di liberismo, i due concetti sono, in gran parte, sovrapponibili, visto che il pensiero liberale (che è, peraltro, un esempio lampante di “non-pensiero”) è coetaneo del capitalismo moderno e ne è stato la giustificazione teorica, la specifica teologia.

…d’altronde nessuna volpe è mai stata entusiasta se il contadino recinta il pollaio, perché, anche le volpi preferirebbero che le galline, per il loro bene, potessero scorazzare in libertà…

In questo senso il mito fondante del liberismo è quello del “libero mercato”, come il luogo della giustizia “nel senso che il prezzo di vendita sul mercato era visto, sia in teoria che in pratica come il giusto prezzo. Il mercato era un luogo di giustizia […] ma, siccome i prezzi sono determinati secondo meccanismi naturali, esso costituisce un criterio di verità […]. Pertanto il mercato definisce che il buon governo debba funzionare secondo la verità” (ovvero secondo il mercato).

Questo mito viene propalato da numerose “mani invisibili” affinché diventi dogma, e le masse possano essere convinte che sia proprio vantaggio il difendere gli interessi delle èlites. E infatti, le masse, fanno propria la fandonia del “libero mercato” convinti che sia nel loro interesse. Naturalmente, non è mai esistito e non può esistere un siffatto “libero mercato”, ma le èlites che lo controllano vogliono essere libere di manipolarlo come più loro aggrada. A tal fine, sono state piuttosto abili a convincere le masse di cui sopra che il “libero mercato” sia un fenomeno “naturale” e che, per questo, sia un pericolo che alcune entità giuridiche, nella fattispecie quella che è chiamata “Stato”, possano limitare questa libertà. D’altronde nessuna volpe è mai stata entusiasta se il contadino recinta il pollaio, perché, anche le volpi preferirebbero che le galline, per il loro bene, potessero scorazzare in libertà.

Questo è il senso più proprio della locuzione “libero mercato”. Scrisse il Marchese D’Argenson: “Si narra che Colbert organizzò una riunione con dei mercanti, affinché questi gli dicessero cosa lui potesse fare per favorire il commercio. Il più intraprendente tra questi, pronunciò una semplice frase: laissez nous faire”. Da allora, la locuzione laissez faire è divenuta il mantra di questo nuovo culto che, nel corso della storia ha trovato un numero talmente cospicuo adepti e seguaci da diventare una sorta di religione di stato dell’intero mondo occidentale.

Secondo questo dogma, la virtù di uno stato è quella di intervenire il meno possibile a tutela dei propri cittadini e, possibilmente, di non provveder ad alcun servizio per alleviare la “durezza del vivere” (lo “Stato minimo” di Nozick). Lo Stato dovrebbe solo creare un “ordine” atto a creare un ambiente propizio per i predatori più forti. Così vuole il deus absconditus di Calvino, di von Hayek e degli Ordoliberali (che adoperarono il termine “ordo” nell’accezione della Scolastica, secondo la quale esso significava l’ordine divino così come stabilito dalla dispositio provvidenziale).

Per quanto i cosiddetti “paesi avanzati” (ovvero: “non completamente ingeriti”) stiano procedendo a grandi passi su questa strada virtuosa, sono in questo senso assai più arretrati di alcuni altri. Per vedere qualcosa che si avvicini alla perfezione del liberismo archetipico, suggeriamo di spostarsi in Africa; e non nella giungla che esemplificammo nel post precedente ma nelle metropoli, nelle quali si può meglio assaporare la rude bellezza dello “stato minimo”, auspicato dai poveri di spirito “di ogni forma e d’ogni età”

Certo, da questo punto di vista, non tutti i luoghi sono uguali. Non sempre la legge del più forte si manifesta nel proprio pieno splendore. Vi sono luoghi come Mogadiscio nei quali lo Stato è talmente minimo che farebbe la gioia dei Milton Friedman de noantri (anche se dubitiamo che, da quelle parti, riuscirebbero a sopravvivere più che una manciata di minuti); altri nei quali il liberismo è un po’ meno virile come, ad esempio Nairobi. Tuttavia, anche qui non mancano soddisfazioni, per l’intenditore.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02/23/liberismo-e-dogma-dal-mito-alla-realta-parte-ii/2486632/

Una delle prime cose che si notano a Nairobi, sono le cosiddette “misure di sicurezza”: per entrare in qualsiasi luogo, dal ristorante al centro commerciale, alle case private, si devono varcare cancelli sorvegliati da guardie. Sono le famose gated communities. Ognuno dei luoghi di cui sopra è circondato da muraglie e/o recinzioni ed è dotato di guardie ai cancelli (e non solo). Alcune di queste recinzioni sono dotate di accessori piuttosto elaborati, come reticolati elettrificati sulla sommità dei muri perimetrali, altre, di ornamenti più artigianali, come cocci di vetro murati nella stessa posizione. Per entrare in qualsiasi luogo, frequentato o abitato dalla upper middle class, è necessario sottoporsi a controlli, da parte degli askàri al cancello. A volte, questi controlli sono alquanto tediosi (specie se si è costretti a sottoporvisi diverse volte in una giornata), come, ad esempio, il dover vergare il proprio nome e il numero di targa della propria vettura su un apposito registro.

Nessuno che faccia parte della categoria socio-economica suddetta (o che gestisca i luoghi da essa frequentati) si sognerebbe mai di fare a meno di questa sorveglianza. Già, perché una delle leggi economiche meno apprezzate dei “liberisti de noantri” vuole che, “dove lo Stato è minimo, la criminalità tende sempre verso il massimo”D’altra parte, quando circa un milione e mezzo di persone vive negli slums (Kibera, Mathare, Korogocho, per citare solo i più noti ) è facile che vi sia un consistete numero di poveri che cerchi la “giustizia distributiva” con altri mezzi (siano essi con armi da fuoco, da taglio o con scasso).

Così si è costretti a spostarsi in automobile da un “gate” all’altro anche solo per comprare un litro di latte. Non che sia impossibile spostarsi a piedi, tuttavia, date le distanze, il traffico che rende difficile qualsiasi attraversamento stradale (ma di questo parleremo in seguito) e lo stato miserando dei marciapiedi, questa è un’opzione che si adotta di rado, ed esclusivamente durante il giorno (e solo in alcune aree).  Se, invece, volete fare due passi dopo l’imbrunire, allettati dal clima mite, in quel caso vale lo stesso avvertimento che ci diedero gli askàri nel post sul leone e la gazzella: “dopo il tramonto escono gli animali pericolosi”. Purtroppo, nel caso della giungla metropolitana, la passeggiata serale è molto più rischiosa perché, coloro che sono troppo poveri per soddisfare anche le più elementari esigenze, tendono a considerare la vostra persona sub specie di ostacolo tra loro e il vostro portafoglio. Non per niente i fisiocratici, antesignani dei “liberisti de noantri”, assimilarono le leggi economiche a quelle di natura. E il “darwinismo sociale” (Herbert Spencer) precedette quello biologico.

Di giorno, viceversa, anche se il pericolo è incomparabilmente minore, la fluidità del passo dell’intrepido camminatore, è alquanto ostacolata dalla massiccia presenza di questuanti, anche se, da quel punto di vista, i paesi europei si stanno rapidamente mettendo al passo (il più grande successo dell’Euro). Tuttavia, quello che qui colpisce è la grande quantità di fanciulli in età scolare o, addirittura, pre-scolare che si dedicano, a “tempo pieno”, all’attività di accattonaggio. Sono i famosi “bambini di strada” (street kids) che abbondano in ogni “Stato minimo”: ovvero esserini che sono stati abbandonati dai genitori quando erano molto piccoli e, data la mancanza servizi sociali all’uopo (cosa molto apprezzata dai liberisti), essi sono costretti a vivere per strada, potendo solo esercitare questa attività per sbarcare (malamente) il lunario.

Un’altra differenza, rispetto all’accattonaggio del vecchio continente, è la creatività delle tecniche adottate (la necessità è la madre delle invenzioni). Qui non vi sono suonatori di vario genere, acrobati o giocolieri di strada, il massimo dell’ingegno mendicante europeo. Questi fanciulli di strada adottano pratiche assai più originali come, ad esempio, avvicinare i passanti impugnando una manciata di escrementi e minacciando di farli oggetto del lancio dei medesimi, qualora questi non devolvano loro la giusta mercede. Il “darwinismo sociale”, a volte, può prendere pieghe inaspettate

Certo che la presenza di una grande massa di derelitti, è foriera di numerosi vantaggi per il liberista che si rispetti come, ad esempio, l’abbondanza di personale a buon mercato per ogni tipo di “mansioni servili” che hanno il pregio (liberisticamente parlando) di non contribuire all’arricchimento del paese e, quindi, ad un benessere diffuso, perché, come diceva Adam Smith “Il lavoro di un servitore domestico, viceversa, non aggiunge valore a nulla”. E così si evita il rischio che i miserabili possano affrancarsi dalla loro condizione di indigenza.

Una fantesca a tempo pieno, ad esempio, non costa più del corrispettivo di un centinaio di euri al mese, così un giardiniere; poco di più un autista. E questo è un bel comfort per quella upper middle class vessata da una vita di cattività in nome della sicurezza. Ma questo non sarebbe possibile senza un’altra caratteristica dello “Stato minimo”, che è quella di avere sempre un consistente “esercito industriale di riserva”

D’altra parte, sin dai tempi di Mandeville (La favola delle api), i liberisti sanno che: L’unica cosa che possa rendere assiduo l’uomo che lavora è un salario moderato. Un salario troppo cospicuo lo rende insolente e pigro. […] Per rendere felice la società e per render il popolo contento anche in condizioni povere, è necessario che la grande maggioranza rimanga sia ignorante che povera”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/03/liberismo-e-dogma-dalla-teoria-alla-pratica-parte-terza/2510065/

Se la upper middle class risiede nella cattività delle gated communities, la più parte dell’”esercito industriale di riserva”, descritto al post precedente, vive nella libertà degli slums (o “baraccopoli”, che dir si voglia). Questi hanno un grande pregio, sono molto discreti: è assai difficile che giungano allo sguardo del turista, dell’uomo d’affari straniero di passaggio o del viandante distratto. Tuttavia esistono – segregata vergogna di ogni Stato minimo – e sono quanto di più simile all’inferno si possa trovare su questa terra.

E’ difficile, arrivare a concepire in che modo centinaia di migliaia di persone possano vivere in aree alquanto limitate, prive di qualsivoglia servizio, stipate di catapecchie fatte di plastica, lamiera e cartone (con qualche piccola isola in muratura, qua e là), tra le quali si diramano polverosi viottoli in terra battuta (che, diventano fangosi ruscelli alla prima pioggia), nauseabondi rigagnoli che prendono il posto degli assenti impianti fognari e la ossessiva presenza di rifiuti in ogni spazio. Questi luoghi pullulano di un’umanità derelitta, ivi naufragata dopo essere stata attirata dalle campagne alla metropoli, dall’illusione di un Eldorado inesistente. Quest’umanità “superflua” (dal punto di vista economico) costituisce l’inesauribile “esercito di riserva” di cui sopra, che è indispensabile per la “deflazione salariale”, non solo delle attività servili (detto in senso descrittivo, senza dispregio alcuno), ma anche di qualsivoglia attività produttiva.

Naturalmente, dalla descrizione precedente, si può facilmente evincere che le condizioni igienico-sanitarie siano spaventose: come abbiamo già detto, gli impianti fognari sono assenti, manca l’acqua potabile, l’aria è pregna del soffocante fumo di rifiuti che bruciano o di quello nauseabondo di materia organica in putrefazione. Le le persone vivono stipate come tacchini negli allevamenti industriali, senza che, però, qui vi siano i controlli sanitari ai quali questi sono sottoposti. Ma, contrariamente ai poveri, i tacchini producono profitto…

Ovviamente la criminalità è elevatissima (e, in questo caso non si può neppure parlare di “giustizia distributiva con altri mezzi”), di conseguenza, questi territori sono teatro di soprusi di ogni genere. Prosperano le gang di piccoli malfattori e le mafiette vernacolari di ogni genere, che taglieggiano i più deboli, cercando di estrarre loro le scarse gocce di valore di scambio di cui dispongono. I terreni e le catapecchie sono, in genere, di proprietà di alcuni “landlords” (proprietari/locatori) che vessano questa povera umanità con affitti esosi (per le scarse capacità contributive di quei poveretti) e che, come si può facilmente intendere, non si rivolgono all’avvocato, in caso di morosità, ma a tipi assai meno raccomandabili che non esitano a sbattere in mezzo alla strada (se va bene) i malcapitati “inquilini” che non sono in regola coi pagamenti.

Negli slums, chiaramente, non mancano tutti i simpatici “effetti collaterali” che si accompagnano alla povertà diffusa: prostituzione, alcolismo, droga. Ogni liberista che si rispetti non può che ammirare queste compiute realizzazioni dello Stato minimo (quando lo Stato è povero è, giocoforza, minimo): bambini glue-sniffer, donne che frugano nei rifiuti, prostitute minorenni sieropositive che si vendono a pochi scellini. E’ il mercato, bellezza! The Market unleashed. La scomparsa del “diaframma di protezione che attenua la durezza del vivere”, auspicata dal defunto bamboccione che rampollo, modestamente, lo nacque; il quale si trovava perfettamente in sintonia con Jeremy Bentham, che ammoniva: “sarà comunque bene guardarsi dalle interferenze della legge, nell’assistenza ai poveri, perché la legge che offre assistenza alla povertà […] è una legge contro l’industria. La spinta al lavoro e all’economia è la pressione del presente e la paura per il futuro; la legge che cancella questa pressione e questa paura, incoraggia all’ inerzia e alla dissipazione”.

In questo mercato perfetto si manifesta compiutamente il “darwinismo sociale” che, a questi livelli di perfezione, coincide col darwinismo naturale (l’oikonomia come manifestazione della provvidenza del Deus absconditus di Calvino) e, in questo contesto, agiscono egregiamente alcuni esserini che, pur essendo minuscoli, sono predatori assai efficienti (anche meglio dei liberisti della savana) e prosperano in maniera eccelsa in questa bolgia terrena. Sono i microorganismi patogeni: vibrioni, salmonelle, treponema pallidum, mycobacterium tuberculosis, papilloma virus, HIV, i vari virus dell’epatite, per menzionarne solo alcuni, senza dimenticare l’onnipresente plasmodium falciparum (agente eziologico della più grave forma di Malaria).

L’assenza di igiene e la promiscuità sono quello Stato minimo che promuove il laissez faire di questi piccoli ma efficienti attori del mercato, che non si nutrono della «materia di cui sono fatti i sogni», ma della materia di cui siamo fatti noi, ovvero di quegli sfortunati, tra noi, che vivono in un mercato perfetto, senza il famoso “diaframma di protezione”. D’altra parte, per i germi, l’assenza dell’interferenza dello Stato (sotto forma di servizi igienico-sanitari) nei confronti del loro libero mercato, è una manna dal cielo.

Per gli esseri umani un po’ meno, perché, parafrasando Adam Smith: “Non è dalla benevolenza del vibrione, del treponema o del micobatterio che noi ci possiamo aspettare la nostra sopravvivenza, nè, tantomeno dal loro riguardo per propri interessi. E’ inutile quindi rivolgersi sia alla loro umanità che al loro egoismo, o parlare ad essi delle nostre necessità, perché queste non coincidono coi loro vantaggi”.

PIER PAOLO DAL MONTE

La fabbrica del falso

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[pullquote]   …..“Perché chiamiamo democratico un Paese dove il governo è stato eletto dal 20 per cento degli elettori? Perché dopo ogni riforma stiamo peggio di prima? …Perché nei telegiornali i territori occupati diventano “Territori”? …Che cosa distingue l’economia di mercato dal capitalismo?”[/pullquote]

Il saggio dell’economista Vladimiro Giacché affronta con estrema lucidità la questione della menzogna, come presenza costante e pervasiva. Come riuscire a sventarla per denunciare che “il re è nudo”?

Se un tempo le verità inconfessabili del potere erano coperte dal silenzio e dal segreto, oggi la guerra contro la verità è combattuta sul terreno della parola e delle immagini” (Vladimiro Giacché).

C’è una protagonista inequivocabile nei media, così come in qualsiasi altra performance di carattere politico e sociale. È la menzogna. La respiriamo ogni giorno, è pubblica e l’abbiamo fagocitata e inglobata, nostro malgrado, nel pensiero comune. Si alloca ormai comodamente nelle nostre sinapsi, impedendo o limitando la visione trasparente della verità. Parole e immagini mirate ci invadono e favoriscono il dilagarsi e il radicarsi della menzogna che trova quindi terreno fertile, nell’epoca del dominante linguaggio pubblico e del bombardamento delle opinioni, trasmesse alla velocità della luce, tramite i media. Le domande illuminanti che dovremmo porci non nascono sempre spontanee o sono fruibili dalla ristretta fascia di chi vuole vederci chiaro in questo dilagante terreno subdolo che ottenebra la verità.

la_fabbrica_del_falso“Perché chiamiamo democratico un Paese dove il governo è stato eletto dal 20 per cento degli elettori? Perché dopo ogni riforma stiamo peggio di prima?…Perché nei telegiornali i territori occupati diventano “Territori”?…Che cosa distingue l’economia di mercato dal capitalismo?”:

alcune delle domande su cui dovremmo riflettere. Chi, in realtà, si pone queste domande e , soprattutto chi tende a trovarne risposte esaustive, sì da equipaggiarsi in collettività per tentare di capovolgerne i sistemi, destrutturando anzitutto le menzogne che nascondono?

Necessario sarebbe riflettere e compiere capillari analisi sugli avvenimenti attuali distorti dalla menzogna propagandata dai media. Mancate verità, si può dire, strumentali alle strategie di convincimento dell’opinione pubblica, affinché si ritenga che sia quella ingiunta l’unica strada da seguire. Plateali e mendaci asserzioni che inducono al monopensiero, deprivandolo di autonomia critica e delle capacità di analisi.

Ne scrive Vladimiro Giacchè, noto ed esperto economista, filosofo e scrittore di numerosi saggi sul tema dell’economia e della politica internazionale (leggi l’intervista). Nella terza edizione del suo saggio La fabbrica del falso (ed. Imprimatur, aprile 2016) l’autore affronta con estrema lucidità, logica e analisi del problema, la questione della menzogna, come presenza costante, generalizzata e pervasiva. Il saggio è articolato su tre parti in cui il tema fondante viene trattato sul nucleo centrale: il potere delle parole e delle immagini risulta decisivo per la costruzione del consenso.

“Esame critico di luoghi comuni e parole chiave del lessico contemporaneo”, nella delucidante prima tranche del saggio, tutta tesa a convergere su come la menzogna “chiama in causa la società in cui nasce e prospera”. Evidenti due aspetti chiave: la falsità del discorso pubblico come “indicatore di ciò che non funziona nelle nostre società” e “l’esistenza di meccanismi sociali in grado di favorire la produzione e la propagazione”…della menzogna, s’intende.

E ci s’inoltra, leggendo il saggio, nel cuore fondante del tema: “l’esame delle radici della guerra alla verità nella realtà sociale del nostro tempo”. E conclude l’autore con proposta di soluzioni e analisi per resistere al virus della menzogna. La domanda è d’obbligo: cosa si può mettere in campo per sventarla e dire finalmente “il re è nudo”?

Ma il mondo dei pensanti si divide, a questo punto. La menzogna e la verità non hanno le stesse angolazioni e sfaccettature per tutti e vigono le correnti di pensiero. Per i seguaci del pensiero postmodernista che considerano l’idea di verità una “scoria filosofica”, intraprendere questa indagine che conduce allo smantellamento della menzogna può essere considerato un percorso inutile e superato. Superfluo è invece per i più realisti, immersi “nelle cose di questo mondo”.

Per coloro, ad esempio che abbiano “bevuto” le motivazioni degli Usa e company per dare un perché alle guerre, dedicarsi all’analisi della menzogna potrebbe apparire superfluo. Il perché? Le menzogne sono troppe e troppo evidenti. Il che, ovviamente, non può giustificare la rinuncia allo smascheramento, ma così è. Ai più appare un percorso, sia pur irrazionalmente, superfluo. Vale citare per i postmodernisti (come fa Giacché in una nota nel saggio, nda) l’assunto recitato da M.P. Linchnel testo La verità e i suoi nemici:“Può non esserci una e una sola risposta vera ad alcune questioni filosofiche, ma ce ne sono alcune effettivamente false”. Pensiero convalidato anche da Popper, per il quale “le teorie scientifiche non possono essere confermate definitivamente, ma possono essere falsificate”.

Fenomenologia della menzogna: la verità mutilata

La verità non è più tale, se le si tolgono i veli di dosso”. Lo affermò Nietzsche. Che vuol dire? Facilmente intuibile, ma anche fraintendibile. Giacché appositamente la fraintende portandola all’asserzione, che è anche un’ipotesi ragionevole, che “la verità, non è più verità, se la si strappa al suo contesto”.

Un esempio, citato nel testo, si riferisce all’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Baghdad. Le tv inquadrarono la statua, ma non le angolature della piazza, mentre gli speaker delle tv internazionali annunciavano al mondo che era presente una “folla festante”. In realtà la piazza era semivuota. Ecco la verità mutilata, riprodotta in infiniti episodi pubblici, attraverso il falsificante potere dei media che offrono in pasto all’opinione pubblica ciò che i poteri mondiali vogliono che si conosca, ma che è solo menzogna. Allo scopo di manipolare consensi fittizi, basati su false verità.

E cita l’autore, per avvalorare la tesi della verità mutilata, il caso di Ai Weiwei, l’artista cinese dissidente. La sua intervista, rilasciata al settimanale tedesco “Die Zeit”, venne tranciata nella pubblicazione di ben “1178 battute”. Taglio che fece risultare il suo discorso “drasticamente alterato”.

Spazio e parole manipolate ad hoc per dare in pasto all’opinione pubblica l’idea di una realtà inesistente, mutilata della verità essenziale. Così come avviene per il contesto, per le circostanze, legate ai tempi e alle dinamiche di un accaduto, che vengono spesso volutamente annebbiate. “La trasformazione dei processi in istantanee – scrive l’autore, riferendosi in particolare all’11 Settembre – l’attenzione al particolare puntiforme a scapito del contesto, la mitologia dell’Inizio assoluto laddove vi è una connessione di avvenimenti ben determinata. Tutto questo consente di creare una narrazione arbitraria, in cui vi è un evento inscrivibile soltanto nella categoria dell’Orrore assoluto. Un orrore inesplicabile, se non attraverso la categoria del Male….”.

A ulteriore conferma di quanto il contesto alterato possa falsificare la realtà dei fatti, il saggista cita l’attacco di Israele su Gaza del 2008, che un’informazione falsata fece iniziare con il lancio di razzi da parte di Hamas. In realtà ben quattro motivi smantellano questa menzogna data in pasto ai media mondiali. Israele, già dal 2007 aveva “trasformato Gaza in una prigione a cielo aperto”. La tregua non è stata rotta da Hamas con il lancio dei razzi, “ma da un attacco israeliano avvenuto il 4 dicembre 2008, durante il quale furono uccisi sette Palestinesi”.

Da allora si intensificarono i lanci dei razzi, da parte dei Palestinesi che non ruppero volutamente la tregua, semplicemente perché il 19 dicembre venne a scadere. Sarebbe stato più veritiero dire che la tregua non fu confermata, anche perché “era stata rispettata solo da loro”. Vale la pena ricordare che durante la tregua vennero uccisi 25 palestinesi, ma nessun israeliano e che la disponibilità di Hamas a prolungare la tregua per dieci anni, venne ignorata da Israele. L’attacco israeliano del 2008 è stato preparato per mesi, pianificato dal ministro della difesa, Barak. Non fu, quindi, una risposta al lancio dei missili di Hamas. All’opinione pubblica è passata una falsa narrazione, ovvero che gli Israeliani si difendevano solamente dagli aggressori palestinesi.

Nel saggio, a dimostrare quanto la menzogna sia parte integrante del messaggio dei media, l’autore parla anche di verità imbellettata”, rappresentata dall’eufemismo, espressione di “una delle fondamentali malattie politiche e sociali della nostra società. Unariformulazione tranquillizzante e rassicurante” dei fatti che vengono così resi innocui, per non suscitare “reazioni ostili”. Accade nel campo dell’economia. Per il giornale della Confindustria la riduzione delle pene per i datori di lavoro, relative ai “reati sulla sicurezza dei lavoratori” sono solo un “restyling delle sanzioni”. Nel lessico contemporaneo dei mercati la parola capitalismo viene spesso sostituita con “sistema di mercato” o “mondo delle imprese”. Una verità occultata con “un po’ di cerone per farla sembrare meno brutta di quello che è”.

Tutto per propagandare la menzogna, un modo per assoggettare le nostre menti ai poteri forti e dar loro il consenso a fare del nostro futuro terra bruciata. Seminando mendacemente la convinzione che “lo stato di cose attuale sia necessario e ineluttabile”. Il terreno è fertilissimo.

http://www.lacittafutura.it/dibattito/la-fabbrica-del-falso-strategie-della-menzogna-nella-politica-oggi.html

> Un Assaggio

La menzogna è il grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo. Il suo ruolo è venuto in primo piano in occasione della guerra in Iraq, ma la sua presenza nella nostra società è molto più generalizzata e pervasiva. Non è difficile capire perché. Un tempo le verità inconfessabili del potere potevano agevolmente essere coperte dal segreto (gli arcana imperii).

Oggi, nell’epoca dei mezzi di comunicazione di massa e della politica mediatizzata, il silenzio e il segreto sono armi spuntate. Perciò, quando serve (e serve sempre più spesso), la verità deve essere occultata o neutralizzata in altro modo. Quindi si offrono versioni di comodo dei fatti, si distrae l’attenzione dai problemi reali dando il massimo rilievo a questioni di scarsa importanza, si inventano pericoli e nemici inesistenti per eludere quelli veri.

Ma, soprattutto, le verità scomode vengono neutralizzate riformulandole in maniera appropriata. Il terreno principale su cui oggi viene combattuta la guerra contro la verità è quello del linguaggio. Si tratti di convincere l’opinione pubblica dell’utilità di una guerra o dell’opportunità di politiche economiche socialmente inique, si tratti di tranquillizzarla sul surriscaldamento del pianeta o di persuaderla della inevitabilità degli omicidi sul lavoro, le cose non cambiano: il potere delle parole risulta decisivo per la costruzione del consenso.

Nella prima parte di questo libro viene quindi effettuato un esame critico di luoghi comuni e parole-chiave del lessico politico contemporaneo. Ovviamente, la menzogna chiama in causa la società in cui nasce e prospera. Lo fa in due modi. Da un lato, in quanto presuppone che la realtà sociale debba essere in qualche modo occultata o travisata per poter essere accettata: da questo punto di vista, il grado di falsità del discorso pubblico contemporaneo è un buon indicatore di ciò che non funziona nelle nostre società.

Dall’altro, in quanto la diffusione stessa della menzogna implica l’esistenza di meccanismi sociali in grado di favorirne la produzione e la propagazione. La seconda parte del libro è dedicata all’esame di questa verità del falso, alle radici della guerra alla verità nella realtà sociale del nostro tempo. La terza e ultima parte approfondisce le diverse strategie di resistenza che oggi possono essere messe in campo contro la menzogna. Nella convinzione che la più pericolosa delle menzogne contemporanee riguardi la necessità e ineluttabilità dello stato di cose presente.

A questa necessità presunta si deve opporre la reale necessità del cambiamento. È giunto il momento di prendere sul serio le parole di Fredric Jameson: “Forse dovremmo iniziare a provare una certa angoscia per la perdita del nostro futuro”

L’immagine sinistra della globalizzazione – la lotta di classe è finita

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[pullquote]…..Perché – è un dato storico – sono stati i partiti della cosiddettasinistra” che hanno promosso e gestito lo smantellamento dei diritti sociali conquistati in decenni di lotte, la privatizzazione del patrimonio dello stato e delle aziende pubbliche, le leggi che codificano la precarizzazione del lavoro ( “jobs act” per i parvenu), e l’accettazione acritica delle politiche economiche di Bruxelles e di Francoforte…[/pullquote]

«C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe dei ricchi che ha scatenato questa guerra, e la stiamo vincendo» così affermava Warren Buffet al New York Times nel 2006. Questa dichiarazione di vittoria dovrebbe far riflettere. Dovremmo domandarci che cosa sia successo, negli ultimi decenni, per farci apparire questa vittoria talmente ovvia da non provocare reazione alcuna. Certo, sarebbe superficiale e inesatto parlare, come fanno gli aedi sempliciotti à la Francis Fukuyama, di “fine della storia”, versione lievemente più elaborata del thatcheriano T.I.N.A. (“there is no alternative” – non c’è alternativa); tuttavia, appare evidente che in questo determinato periodo storico si sia affermata una versione particolarmente aggressiva e totalitaria di un capitalismo” (termine peraltro piuttosto sfuggente alle definizioni) che, in altre epoche, era dovuto venire a patti con istanze politiche che ne attenuavano il dominio sulla società.

Scheda-radicals.1114a14e1910c4b919c437ae511c26c698Il dopoguerra, nelle varie nazioni europee, (“in certe parti più, e meno altrove”) è stato caratterizzato da una sorta dinuovo patto sociale” che, per brevità, e quindi con una certa imprecisione, potremmo definire  “modello Beveridge – Keynes”. Un modello caratterizzato da una ripartizione più equa del rapporto salari/profitti (e quindi un benessere sociale diffuso) e da una serie di tutele sociali dei cittadini da parte dello Stato, ossia quello che, con un inutile anglicismo è definito Welfare State: sanità e istruzione pubbliche, sistema pensionistico, contrattazione collettiva, ecc. Queste “patto sociale” è stato oggetto, negli ultimi decenni, di un attacco senza quartiere da parte di quello che un tempo si chiamava “padronato”, reminiscenza quasi ottocentesca per definire i poteri economici dominanti.

Questi ultimi si sono avvalsi di efficienti fantaccini reclutati all’uopo: i principali partiti politici dei paesi occidentali, le istituzioni internazionali (Imf, Wto, ecc.),  gli organi di gestione autocratici (parlare di “governo” ci pare un po’ esagerato) di quell’entità ibrida chiamata Unione Europea, nonché di vari corifei di regime come gli intellettuali organici, il “clero universitario regolare” (definizione di Costanzo Preve) e i vari mezzi di comunicazione  (media whores o presstitutes, per usare un anglicismo che, in questo caso, non è inutile). Non v’è quindi da stupirsi se, almeno temporaneamente, questa guerra sia stata vinta dalla classe alla quale appartiene il miliardario summenzionato. Questa vittoria è andata di pari passo con una mutazione che non è stata solo politica e ideologica ma, soprattutto, antropologica.

 Tant’è che oggi, soprattutto per coloro che si ritengono appartenenti alla confusa area sinistreggiante, le “ideologie” sono state sostituite con l’idolatria per una forma totemica di mercato”, considerata il “summum bonum”, il termine di riferimento di ogni azione politica e il fine ultimo della società. Il vitello d’oro al quale si devono sacrificare gli esseri umani, le comunità, la storia e la natura. A questo punto, tuttavia, sorge spontanea un’altra domanda: cos’è successo in questi decenni per trasformare i partiti che un tempo avevano come ragione d’essere il ruolo di fidati cani da guardia dei poteri finanziari e industriali transnazionali? L’opera di Paolo Borgognone: L’immagine sinistra della globalizzazione (Zambon Editore, 2016), assai pregevole e ponderosa (1044 pagine), fornisce molte risposte a queste domande e ci guida attraverso il processo storico e culturale che ha condotto alla mutazione antropologica, ancor prima che politica, di quello che Costanzo Preve definì: «L’orrendo serpentone metamorfico Pci/Pds/Ds/Pd», che si è trasformato nel tempo, secondo le parole dell’autore: « da partito con velleità di rappresentanza delle classi subalterne, lavoratrici e salariate, a partito garante degli interessi del capitalismo globalizzato».

Perché – è un dato storico – sono stati i partiti della cosiddettasinistra” che hanno promosso e gestito lo smantellamento dei diritti sociali conquistati in decenni di lotte, la privatizzazione del patrimonio dello stato e delle aziende pubbliche, le leggi che codificano la precarizzazione del lavoro ( “jobs act” per i parvenu), e l’accettazione acritica delle politiche economiche di Bruxelles e di Francoforte. Il tutto dietro la scusa, patetica – perché la politica non è il limitarsi ad attraversare sulle strisce pedonali – del summenzionato T.I.N.A. Il libro documenta, con dovizia di particolari, la lunga strada percorsa dall’orrendo serpentone, che è iniziata con la difesa dei diritti dei lavoratori per finire, ingloriosamente col vergognoso spettacolo al quale assistiamo oggi: la servile protervia con la quale si sta smantellando l’ultimo impiccio che ostacola la trasformazione del nostro paese da democrazia a “mercatocrazia”: la Costituzione italiana (JP Morgan ringrazia sentitamente).

Come recita l’introduzione del volume: «È proprio per allineare la Costituzione e l’Italia il più rapidamente possibile a questi orizzonti liberisti (a cominciare da una legge elettorale ipermaggioritaria che impedisca l’ingresso in parlamento di qualsiasi forma di opposizione) che il capitalismo italiano e internazionale hanno puntato sul cavallo Matteo Renzi, della scuderia Pd, che al momento sembrerebbe il più veloce. Se tutto andrà bene, nell’Italia “napolitan-renziana”, l’unica forma di vita apparentemente democratica sarà presente solo nelle assemblee condominiali»

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/05/28/limmagine-sinistra-della-globalizzazione-per-borgognone-la-lotta-di-classe-e-finita/2774769/

Keynes, Draghi e i tassi negativi

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[pullquote]…..Il valore si crea lavorando, l’euro impone la disoccupazione come risposta alle crisi, l’euro distrugge valore, e quindi i creditori in euro non devono lamentarsi……[/pullquote]

Come forse starete vedendo, sui media di regime è tutta una scoperta dell’acqua calda. Il Sole 24 Ore, il Corriere, la Stampa, scoprono quello che qui da sempre ci siamo detti: che il surplus tedesco più che dimostrazione di virtù è causa di problemi; che il debito privato, non quello pubblico, è origine della crisi; che curare il debito pubblico con l’austerity trasforma una situazione fisiologica in una patologica. Insomma: tutto quello da cui siamo partiti, parola per parola, viene oggi dato come assodato, come “mainstream”, da persone che spesse volte ci hanno denigrato, singolarmente o collettivamente, per averlo detto quando c’era ancora qualcosa da salvare.

Naturalmente nessuno è disposto a fare per primo l’ultimo passo, vale a dire che siccome solo la crescita potrebbe risolvere i nostri problemi, e siccome l’euro è nemico della crescita, perché la svalutazione interna (taglio dei salari) imposta dalla rigidità del cambio condanna alla deflazione, condizione necessaria per uscire dall’impasse è superare il sogno di una moneta imperiale ed evolvere verso un sistema monetario più flessibile.

Faranno questo ultimo passo quando sarà loro chiesto di farlo.

Noi, intanto, possiamo guardare avanti.

Per rendervi più agevole questo compito, e aiutarvi a perdonare chi con le sue menzogne ha distrutto un paese, vorrei oggi con voi allargare le prospettive, facendovi leggere qui quello che fra un anno leggerete sul Financial Times.

Avrete visto le polemiche fra un certo establishment tedesco e Draghi, accusato di fare politiche troppo espansive, di praticare tassi di interessi troppo bassi. Certo, al creditore tedesco i tassi di interesse troppo bassi danno fastidio, anzi, fanno paura, e questo per due motivi. Il primo è che tassi nulli o negativi compromettono la redditività del sistema bancario. Se le banche devono pagare la Bce quando depositano presso di essa liquidità in eccesso, e al contempo devono pagare i propri clienti affinché questi accettino prestiti (cioè si indebitino), capite bene che fare il banchiere non conviene più molto. Il secondo è che il sistema previdenziale tedesco ha un secondo pilastro basato sulla capitalizzazione. Con tassi di interesse bassi, se non negativi, i fondi non sono in grado di assicurare le prestazioni promesse ai risparmiatori/pensionati. Questa cosa, in un paese dalla demografia non florida, rischia di essere devastante, e, come qui sappiamo da tempo, a livello di istituzioni europee (cioè tedesche) la consapevolezza di queste dinamiche è piena.

Draghi ha risposto una cosa molto giusta: i tassi di interesse sono bassi perché non c’è crescita e la produttività langue. Tradotto: se non crei valore, non puoi distribuirlo né come reddito da lavoro, né come reddito da capitale (interessi). Naturalmente Draghi omette un passaggio, anzi due: il primo è che il valore non si riesce più a crearlo perché con cambi intraeuropei rigidi a una situazione di crisi non si può rispondere che creando disoccupazione (se le imprese del Sud non abbassano i prezzi chiudono, ma per abbassare i prezzi devono tagliare il “costo del lavoro”, e per convincere i lavoratori ad accettare questo passaggio normalmente occorre licenziarne un po’: motivo per il quale ovunque si fanno riforme che precarizzano il lavoro). Il valore si crea lavorando, l’euro impone la disoccupazione come risposta alle crisi, l’euro distrugge valore, e quindi i creditori in euro non devono lamentarsi.

Tanto più che (e questo è il secondo passaggio) le élite tedesche questo sistema lo hanno voluto nel loro interesse, e proprio per tutelare il valore del loro risparmio. La rigidità del cambio intraeuropeo aveva diverse dimensioni (da quella simbolica a quella commerciale a quella politica), ma la più importante era certamente la dimensione finanziaria: il cambio fisso serviva a rendere “credibili” i paesi del Sud, cioè a evitare che in caso di crisi la loro valuta fisiologicamente cedesse, ledendo l’interesse dei creditori. Insomma: il cambio rigido verso il Sud, e sottovalutato per il Nord, è servito al Nord non solo ad accumulare crediti verso il Sud, ma anche e soprattutto a difenderne il valore. L’euro non solo ha causato, come ormai è evidente, gli squilibri intraeuropei, ma è servito anche e soprattutto a difendere la posizione patrimoniale di chi ne aveva beneficiato, il quale ora, però, dato che il gioco si è spinto troppo in là, comincia a patirne anche lui le conseguenze.

Vedete, qui il discorso merita di essere ampliato un po’. Quando si parla di “leggi” economiche lo si fa (o lo si dovrebbe fare) con la consapevolezza che l’economia è una scienza sociale, non una scienza naturale. La legge di gravità non ammette eccezioni ed agisce in modo piuttosto cogente: se all’aereo che mi trasporta si stacca un’ala, è certo che voi questo post non lo leggerete. L’energia potenziale si trasforma in energia cinetica appena le viene consentito di farlo, portando un corpo verso una nuova situazione di equilibrio, mentre gli equilibri economici, come ad esempio quello negli scambi fra paesi, possono essere alterati a lungo da decisioni politiche, che possono trovare consenso, nonostante siano contro la “natura” economica, per diversi e complessi motivi sociali, culturali, antropologici. Solo che poi, alla fine, la razionalità individuale fatalmente deve sottostare alle regolarità empiriche collettive, che immancabilmente frustrano i tentativi individuali di violentare la natura economica.

Vi ricordate la proposta di Keynes a Bretton Woods?

Era una proposta molto razionale: i paesi creditori (cioè detentori di posizioni nette sull’estero positive) avrebbero dovuto pagare, anziché percepire, un interesse sui propri crediti. Una proposta che, come vi ho spiegato in due libri e innumerevoli post, e come meglio di me hanno chiarito Fantacci e Amato, aveva una razionalità economica intrinseca. Lo scambio avviene nell’interesse delle due parti. Il paese esportatore trae beneficio dal fatto che il paese importatore acquisti, e quindi nel momento in cui finanzia quest’ultimo non fa un favore solo a lui: fa un favore anche a se stesso. Dato che la finanza internazionale fa comodo a entrambi, è giusto che entrambi la paghino. Non solo: tesaurizzando i propri crediti internazionali per percepire su di essi un interesse positivo, il paese esportatore esporta anche disoccupazione e deflazione (Draghi rimprovera anche questo ai tedeschi: se il denaro costa poco, dice lui, è perché la Germania risparmia troppo). Se il creditore internazionale pagasse un interesse negativo sui suoi crediti, sarebbe invogliato a spenderli per l’acquisto di merci altrui, favorendo un riequilibrio degli scambi esteri. In tal modo, promuoverebbe la crescita dei paesi più deboli.

Una finanza più equilibrata per un mondo più equilibrato richiede una simmetrica penalizzazione degli squilibri finanziari internazionali.

Questa idea così semplice, purtroppo, non fa comodo a chi sa di essere destinato al ruolo di esportatore, cioè di creditore, il quale quindi naturalmente si oppone. Al tempo di Bretton Woods gli Stati Uniti si opposero alla proposta di Keynes, e oggi, qui da noi, la Germania si oppone a spendere il suo surplus per rianimare il circuito economico europeo.

Vedete però il paradosso? Alla fine l’economia si vendica.

I creditori esteri si sono rifiutati di costruire un sistema in cui, per prevenire gli squilibri, fosse loro chiesto di pagare un tasso di interesse negativo, e ora, a valle della creazione di enormi squilibri, la situazione qual è? Ma semplicemente quella che i creditori hanno disperatamente cercato di evitare: si ritrovano a percepire tassi di interesse nulli o negativi sul loro “tessssoro”. La ZIRP (zero interest rate policy) è l’unica possibilità per tenere insieme un sistema nel quale si sono accumulati squilibri finanziari enormi. Se la si abbandonasse, le posizioni debitorie a fronte del “tesssssoro” diventerebbero insostenibili, e i simpatici Gollum transalpini si troverebbero comunque con un pugno di mosche in mano. Loro se la prendono con Draghi, ma, oggettivamente, Draghi non può fare altro (se non andarsene, cosa che legittimamente non vuole fare).

Spettacolare, no? Keynes, cacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra!

Rientrato, ma, aggiungo, non in ottima forma. La differenza fra quello che voleva lui e quello che si sta verificando dovrebbe essere chiara. Lui voleva che i paesi forti, penalizzati da un tasso di interesse negativo sui loro crediti, venissero incentivati a spendere nei paesi deboli. I tassi negativi odierni invece si applicano a tutti: ai forti e ai deboli. Alla fine quindi essi servono per lo più a incentivare i paesi (e in generale gli agenti economici) deboli ad assumere nuovi debiti per rilanciare l’economia. Stiamo trasformando l’Eurozona in un posto in cui la banca ti paga perché tu ti indebiti: è così che è nata la crisi dei subprimes (come saprete), ed è così che stiamo risolvendo la crisi europea. Se il pensionato tedesco si preoccupa non ha torto. Peccato che questo sia il sistema che la Bild gli ha insegnato ad appoggiare politicamente! Tu l’as voulu, Hans Maier…

Quanto sarebbe meglio evolvere verso un sistema monetario maggiormente flessibile, come del resto sta facendo il resto del mondo, e come chiede il chief economist del Fondo Monetario Internazionale? Certo, nelle condizioni attuali ci sarebbe qualche mal di pancia da gestire: chi per tanti anni ha beneficiato del sistema, sarà riluttante a pagare la sua parte del conto, sotto forma di svalutazione dei propri crediti esteri. Succede sempre così: l’economia, alla fine, penalizza chi si è indebitamente avvantaggiato. Ricordate i mutui in ECU? Costavano poco, i tassi erano bassi, la rata era stabile perché eravamo agganciati allo SME… Ma quell’aggancio, che faceva bene al debitore, faceva male ad altri: le imprese esportatrici, ad esempio. Il debitore di questo non era consapevole, e se lo era se ne infischiava. Alla fine il mercato pareggiò i conti: chi aveva pagato tassi bassi si ritrovo una rata alta, e chi aveva accettato tassi alti (indebitandosi in lire) non subì perdite in conto capitale. Il pensionato tedesco che oggi si lamenta è, ahimè, nella stessa situazione, e i suoi mal di pancia li capisco. Ma tanto lì dobbiamo andare a parare, allo smantellamento del sistema, perché, come la storia che vi ho raccontato dimostra, alle leggi dell’economia si può sfuggire per un certo tempo, ma non per sempre. E più il tempo passa, più il contesto politico si degrada, e l’acredine si accumula, rendendo più arduo il componimento pacifico degli squilibri.

https://goofynomics.blogspot.it/2016/05/keynes-draghi-gollum-e-i-tassi-negativi.html#comment-form

Esterofilia

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[pullquote]…Prima di mitizzare qualcun altro, dovremmo conoscerne anche i “panni sporchi”[/pullquote]

Parliamone francamente: noi italiani abbiamo una tendenza spiccata a mitizzare gli altri. Siamo degli esterofili belli e buoni. Siamo molto bravi ad esaltare i nostri difetti e, allo stesso tempo, i pregi altrui. Sentiamo spesso pronunciare frasi del tipo “faremmo meglio ad essere governati da altri”. E tra questi altri, in cima alla lista, ci sono i tedeschi. A mio avviso si tratta di uno dei luoghi comuni più gravi (ve ne sono di ben più innocui) che rischia di condizionare profondamente il futuro del nostro Paese, dei nostri cari, dei nostri figli. Il punto è che non siamo esterofili per scelta ma, molto semplicemente, perché così ci hanno insegnato.

Il programma scolastico su cui si è formata la generazione del baby boom economico, quella nata dopo/a cavallo con la Seconda Guerra mondiale non prevedeva parole come “patria”, “patriottismo”, ecc. Vocaboli scomparsi dopo la triste parentesi fascista. Il desiderio di catarsi da quella pagina nera della storia italiana è stato talmente forte che non solo – e giustamente – sono stati inseriti nella Costituzione due articoli sul fascismo, ma anche (e questo è l’aspetto meno conosciuto ma per certi versi più eclatante) non sono stati inseriti nei libri di testo vocaboli che richiamano il concetto di patriottismo . Quasi per paura che questi potessero fomentare la nascita di nuove ideologie totalitarie e non democratiche.

Vi siete mai chiesti perché in pochissimi conoscono l’inno nazionale? La ragione è sempre la stessa: il senso di patria non ci è stato insegnato. E questo vuoto inconscio viene colmato oggi dall’esaltazione dei pregi degli altri Paesi, dimenticandone o misconoscendone i difetti. Estremizzando un po’ il concetto, ci troviamo nella stessa condizione in cui si trova un figlio che non ha un genitore e prende a modello qualcun altro dall’esterno.

E poi, francamente, prima di mitizzare qualcun altro, dovremmo conoscerne anche i “panni sporchi”. Nell’esempio dei tedeschi – che compaiono nei desiderata degli italiani al primo posto fra quelli a cui esternalizzare la gestione dell’esecutivo probabilmente perché effettivamente hanno il pregio di essere più rigorosi e metodici di noi – di panni sporchi ce ne sono parecchi. Ne conto solo qualcuno:

a) Violano da anni ripetutamente le regole europee sul surplus economico che prevedono che un Paese non possa avere nella media a 3 anni un surplus superiore al 6% del Pil. Ormai siamo al record dell’8,5% e, a quanto pare, non hanno alcuna intenzione di rispettare questo paletto, seppur nato tardivamente e solo nel 2010 quando la frittata era fatta, europeo. Un paletto non da poco considerato che in questo momento i Paesi dell’area euro stanno affrontando una delle più grandi crisi economiche della storia, causata principalmente da squilibri commerciali. E questi squilibri continueranno ad ampliarsi se la Germania non decide di rispettare la regola del surplus. E’ molto probabile che nei prossimi mesi/anni saranno gli Stati Uniti a costringerli a rigare dritto perché il surplus eccessivo tedesco distrugge l’Europa e agli Stati Uniti non fa comodo avere un partner così importante fortemente indebolito (p.s. come mai Renzi nell’incontro di ieri con la Merkel non ha menzionato questo “dettaglio” sul surplus? Avrebbe fatto un favore a tutti e, politicamente, a se stesso);

b) i tedeschi hanno un eccesso di surplus non solo perché sono bravi. L’aspetto più significativo che permette di reiterare anni su anni di surplus da record è dettato dal fatto che, tramite l’euro, operano una svalutazione competitiva a tempo indeterminato. Se avessero la loro valuta, quella che effettivamente rispecchia i propri fondamentali economici e il livello di produttività, farebbero surplus il primo anno ma già dal successivo ne farebbero molto meno e sempre meno negli anni dopo perché, molto semplicemente, quando un Paese esporta tanto vede anche rivalutarsi la propria valuta perché non esporta solo beni e servizi ma anche la propria valuta che serve per comprare quei beni e servizi, valuta che di conseguenza si rivaluta secondo la prima legge dell’economia: domanda e offerta. Quindi a partire dal secondo anno i prodotti tedeschi costerebbero di più all’estero (per effetto della rivalutazione del cambio) e sarebbero via via meno attraenti e “competitivi”. Non bisogna mai dimenticare questo punto: la Germania vanta lo status di Paese che pratica una svalutazione competitiva a tempo indeterminato;

c) quanto a integrità intellettuale e morale i panni sporchi non mancano. Pensate solo per un istante se il “dieselgate” fosse scoppiato in Italia quale sarebbe stata la reazione degli italiani contro se stessi. Senza dimenticare l’ultima indagine nei confronti di Deutsche Bank, accusata di aver venduto in maniera anomala 7 miliardi di titoli di Stato italiani nel 2011. O la multa record inflitta alla Siemens nel 2008 (800 milioni di dollari) per corruzione.

Con tutto ciò non voglio dire che noi italiani siamo perfetti o migliori. Abbiamo anche noi i nostri panni sporchi, come tutti (sprechi, spesa pubblica improduttiva, ecc.). Ma vorrei ricordare, ad esempio, parlando del tanto criticato debito pubblico, il primo additato nei discorsi al bar degli italiani a cui piace auto-punirsi, che:

a) è 25 punti più alto (quindi non così tanto) di quello di Francia e Stati Uniti;

b) ma cos’è il debito pubblico? E’ il credito privato. Non a caso in Italia c’è un alto tasso di risparmio e un più basso livello di debito privato (compensato dal debito pubblico, cioè credito privato);

c) il debito pubblico non va estinto ma deve essere semplicemente sostenibile (quella del neonato che nasce con 35mila euro di debito è una favola)

Il punto è che non abbiamo, perché non ci è stato insegnato, il senso di patria. E abbiamo bisogno di credere che ci sia da qualche parte qualcuno migliore di noi, una guida per colmare un vuoto psicologico di massa. Ma è il momento, da adesso, di fare un salto da questo punto di vista. Non vale sentirsi italiani solo quando gioca la nazionale di calcio. Ma tutti i giorni ricordando e apprezzando i nostri pregi. Partendo da questi per migliorare i nostri difetti. Mitizzare un Paese perfetto là fuori che non esiste non ci servirà a nulla. Per sentirci più europei, dovremo prima sentirci più italiani.

Perché siamo esterofili (e non ci serve a niente)

TTIP e TTP: le poste in gioco

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[pullquote]…..ormai non ci sono più tariffe da abbassare e quindi i negoziati hanno ad oggetto le altre barriere “non tariffarie”; sono queste ormai che fanno “gli affari costosi” per le grandi multinazionali. Di qui l’enfasi sulla “armonizzazione” (al ribasso) in favore del profitto. Il punto è che qui si parla solo del profitto delle grandi società sostanzialmente a danno dei beni pubblici tutelati dalle norme in oggetto (protezione dell’ambiente, del lavoro, della salute, della sicurezza)…[/pullquote]

In questi giorni si sta nuovamente, dopo le rivelazioni di Greenpeace, riaccendendo la polemica sulle oscure trattative per la stipula del Trattato commerciale TTIP tra l’Unione Europea e gli USA che sono in corso dal 2010.

Entrambe le squadre di negoziatori, come è del resto consuetudine in questo genere di trattati, operano al coperto di imponenti misure di riservatezza che sono erette anche verso i rappresentanti politici del Congresso USA e del Parlamento Europeo. I funzionari della Commissione preposti, come ha francamente ammesso ad ottobre Cecilia Malmström, che è il Commissario al Commercio Europeo, non reputano di dover rispondere al popolo europeo. Testualmente il funzionario ha risposto “il mio mandato non deriva dal popolo europeo”. Su un livello si potrebbe dire che viene dai “governi” europei (che, tuttavia dovrebbero rispondere al popolo), ma più precisamente, ad un livello più specifico, credo si possa dire che viene da quei segmenti di quel mondo separato che l’ultimo Dahrendorf, ad esempio, chiamava non senza preoccupazione “nuova classe globale”.

Pensiamoci un attimo, l’insieme delle tecnostrutture specializzate negli uffici della Commissione Europea, degli stessi Commissari in quanto cooptati, delle strutture decisionali e degli occupanti delle sedi di rappresentanza a Bruxelles delle migliaia di aziende con proiezione internazionale e delle loro organizzazioni di secondo livello, degli uffici di indirizzo e sostegno dei diversi stati membri, dei delegati nazionali, dei tanti professionisti specializzati nella “traduzione” di questi diversi input normativi ed organizzativi centrali e periferici (e quelli delle organizzazioni di mezzo di cui parla Kjaer), … le procedure di accesso selettivo di cui parla Scharpf, tutto questo consolida quello che potremmo chiamare “un consenso”. E che, volendo dargli una etichetta, potremmo chiamare “Il Consenso di Bruxelles”.

Sia chiaro, nel dire questo bisogna comprendere che non si sta evocando alcuno oscuro complotto, è tutto aperto ed alla luce: il “consenso” non è una decisione presa da qualcuno, non è un protocollo, un libretto di istruzioni, un club con elenchi, un luogo di riunione (anche se informa decisioni, ha protocolli, esistono libretti, ci sono club e luoghi). E’ più un ‘sistema d’azione concreto’ (vecchio concetto della sociologia delle organizzazioni di Crozier) e soprattutto una cultura condivisa.

In questo senso quelli che operano nel determinare “il mandato” cui il Commissario fa riferimento non sono i lobbisti (che ovviamente sono presenti, attivi e determinanti), ma una sorta di superclasse che esprime un potere capace di pensarsi come sovranità.

Mettiamo in un angolo questa riflessione, perché poi ci torniamo, e proviamo a chiedere quale è la materia del negoziato, per chi è negoziata e quali sono le conseguenze.

Per quel che si capisce, e non è molto, l’oggetto del negoziato è l’armonizzazione delle “barriere non tariffarie” (perché quelle tariffarie sono molto basse) rimaste dopo l’applicazione dei trattati di libero scambio negli anni duemila ed il costante lavoro in questo senso del WTO. In particolare sono in questione due dimensioni specifiche: le norme che consentono agli stati, ed alla UE, di applicare misure di restrizione dei commerci per salvaguardare salute e sicurezza dei cittadini incluse nei Trattati WTO; e quelle che limitano (o estendono) i diritti di proprietà intellettuale. Sono due questioni di grandissima importanza.

Dal punto di vista del sistema d’azione cui risponde “il mandato” del Commissario (e dei negoziatori USA), però, sono questioni relativamente ovvie: le due limitazioni ostacolano l’efficienza del sistema economico. Ovvero, specificamente, ostacolano il profitto dei suoi attori essenziali (quelli rappresentati). Per la sovranità che si esprime (e che non è quella democratica) la questione si pone dunque in termini di funzionamento. Qualcosa di mal definibile (ma altrimenti non produrrebbe “un consenso”) che è considerato come assoluta banalità-in-sé perché del tutto “naturale”.

Dal punto di vista delle élite, anzi della concatenazione di queste con sistemi di regole e strutture, è, in effetti, la natura stessa del mondo (nel suo necessario funzionamento economico e sociale) che è in gioco.

Ma ci sono anche altre visioni: Stiglitz, ad esempio, argomenta che gli accordi, negoziati non a caso in segreto, vertono in realtà sulla facoltà delle grandi aziende multinazionali di proteggere i loro potenziali profitti dalle norme ambientali, di sicurezza sul lavoro, o di protezione dai rischi finanziari. “L’armonizzazione normativa”, che dicono di perseguire, è infatti chiaramente verso il basso, l’unico valore che sembra riconosciuto meritevole di tutela è il profitto. O, visto da un altro lato, l’efficienza. Anche in base alle altre bozze trapelate (sull’accordo gemello, il TTP) l’impressione del nobel americano è che tutto andrà a esclusivo beneficio della “ricca scheggia della élite americana e mondiale”, contro tutti gli altri.

Il motivo specifico è che ormai non ci sono più tariffe da abbassare (infatti sono già irrilevanti) e quindi i negoziati hanno ad oggetto le altre barriere “non tariffarie”; sono queste ormai che fanno “gli affari costosi” per le grandi multinazionali. Di qui l’enfasi sulla “armonizzazione” (al ribasso) in favore del profitto. Il punto è che qui si parla solo del profitto delle grandi società sostanzialmente a danno dei beni pubblici tutelati dalle norme in oggetto (protezione dell’ambiente, del lavoro, della salute, della sicurezza).

L’idea sembra essere di usare questo chiavistello per riposizionarsi nel mondo che c’era prima dell’ondata normativa degli anni sessanta e settanta.

Specificatamente i punti critici sono la facoltà di accesso al Tribunale Internazionale, per mettere sotto accusa lo Stato di turno e le sue norme, quando una società internazionale che opera in esso reputa che il suo diritto a conseguire un legittimo profitto ne viene ferito. Un settore in cui tale criterio potrebbe essere utilizzato è quello della vendita di prodotti potenzialmente pericolosi, come le sigarette, o coperti da brevetti, come i farmaci.

Chi sostiene l’accordo utilizza teorie che Stiglitz denuncia come “false”, ma ancora in circolazione sostanzialmente perché “servono gli interessi dei ricchi” (sono quindi molto vantaggiose per chi le avanza e la sua organizzazione). Tra queste non esita a citare la comune teoria del “libero commercio” (cioè quella visione secondo la quale esso è sempre un bene); secondo la quale, anche se ci sono vincitori e vinti, non può essere un problema, perché il saldo è largamente positivo e ci sarà comunque modo di compensare i perdenti (con i sussidi di disoccupazione, o con altre politiche di risarcimento).

Questa antica teoria si basa su numerosi presupposti impliciti sbagliati: il primo è che i lavoratori si possano muovere senza problemi tra i posti di lavoro (passando, ad esempio, dal settore della produzione tessile che si sposta in India, all’informatica avanzata che cresce per gestire il decentramento) e da settori a bassa produttività a settori ad alta. In sostanza l’idea implicita è che se un lavoratore resta disoccupato mentre opera in un settore poco produttivo (e quindi debole rispetto a una concorrenza estera che era sotto controllo solo grazie ai dazi o ad altre barriere), trova subito una nuova occasione, perché nel frattempo si formano nuove aziende ad alta produttività che lo assorbono. Ovviamente perché, non essendoci (nei modelli non c’è mai) disoccupazione, il nuovo imprenditore può rivolgersi solo a lui che è libero. Peccato che quando c’è, invece, un alto livello di disoccupazione la cosa vada in modo radicalmente diverso (ed oggi in Europa c’è molta disoccupazione). Ciò che succede, in realtà, è che il nuovo disoccupato si aggiunge semplicemente ai precedenti, e contribuisce ad alzare la pressione al ribasso sui salari. Da un “occupato a bassa produttività”, si passa a un disoccupato “a zero produttività”.

Cosa succede, per quanto possa anche essere piccolo, quando l’abbattimento di alcune barriere non tariffarie, cui un dato ecosistema aziendale e sociale è adattato, vengono ridotte in direzione di quelle, molto meno esigenti, di un altro? Che quest’ultimo si trova a disporre di un immediato e del tutto gratuito vantaggio competitivo. Se l’industria del vino italiana, o francese, organizza il suo prodotto lungo tutta la filiera con criteri biologici, mentre quella americana può fare uso di tecniche e di prodotti geneticamente adattati che gli forniscono dei vantaggi ma gli impediscono l’accesso, e questa barriera cade il risultato immediato sarà una forte esportazione di vino dagli USA e importazione in Europa. Dunque la chiusura delle cantine, la riconversione dei vigneti etc. all’opera in Italia e Francia. Secondo la teoria economica ciò che cosa comporterebbe? Che i relativi fattori produttivi (capitale e lavoratori) saranno liberi di impiegarsi in qualche settore più competitivo, con vantaggio comune. Ad esempio andare a produrre elettronica industriale (in cui alcune industrie tedesche, ma anche italiane, hanno dei vantaggi). Inoltre l’effetto sarà al termine di un riadattamento globale, l’innalzamento della soglia minima necessaria per stare sul mercato. Invece di molte aziende vinicole ne avremo di meno con un mercato più grande. Anche questo, nella particolare ottica delle grandi aziende multinazionali è ovviamente un fattore di maggiore efficienza.

O, per fare un altro esempio, la prevalenza del “criterio del danno (secondo il quale tutti possono immettere prodotti sul mercato fino a che non si dimostra che fanno male) americano sul “principio di precauzione (secondo il quale è il produttore che deve dimostrate la sicurezza, ed in sua assenza si usa precauzione) europeo, introdotta senza precauzioni, porterebbe fuori mercato tante aziende oneste che hanno prodotti più costosi (ma innocui) a vantaggio di altre che poi bisognerebbe contestare sulla base di impegnative e lunghe procedure legali. Nel frattempo noi sopporteremmo i rischi (come gli americani).

Ci sono molte cose che possono essere obiettate: da una parte è discutibile che una forte concentrazione in poche aziende di interi settori (cioè la creazione di oligopoli) sia segno di efficienza complessiva, perché genera un sistema fragile, vulnerabile a potenziali shock e fortemente sbilanciato. Un sistema inoltre in cui si tende a generare monopoli e monopsoni in grado di influenzare i prezzi e di controllare il sistema di regolazione. Dall’altra la fase di transizione che vede normalmente molti perdenti e qualche vincente diversamente localizzato, vedrebbe la distruzione di interi settori ed il degrado di vasti territori che spesso lo restano. Ovviamente questo “effetto collaterale” in via di principio può essere risolto, con investimenti, formazione e sussidi, ma perché ciò possa accadere deve essere intanto previsto, discusso e programmato. In questo modo si vede che in una fase non certo breve ci saranno costi molto alti a carico delle pubbliche amministrazioni e dei bilanci. Nell’attuale condizione in cui le grandi aziende in pratica non pagano tasse ci saranno anche danni erariali dissimetrici.

E qui si torna al punto capitale del “sovrano”, o del “mandato”: la questione di chi e per chi firma, e del luogo in cui si negozia e come, è quella centrale. Se si compie tutto nel segreto e sotto copertura di vaghe ideologie liberoscambiste gli esiti saranno una riarticolazione in cui i perdenti sono abbandonati a se stessi senza loro colpa, se non di aver rispettato le regole che c’erano. Inoltre si avrà una drastica riduzione delle garanzie per i cittadini, e la rottura di mercati per concentrare in poche grandi aziende che eludono il fisco, grandi flussi finanziari, ed infine (ma non certo ultimo) danni erariali diretti ed indiretti per la gestione delle conseguenze.

La questione diventa di capire chi sopporta i danni collaterali. Nel quadro generale attualmente vigente in una Europa senza solidarietà questi sono a carico dei bilanci pubblici dei singoli stati, e senza ulteriori “flessibilità”. Porre invece la questione imporrebbe di leggere l’accordo commerciale nel quadro generale degli assetti fiscali.

L’enorme difficoltà di avviare questo discorso negato spiega molto bene la tentazione di raccontare la favolina del “vincono tutti” per non affrontarla.

Krugman aggiunge un’altra dimensione alla critica (in questo post ed in questo articolo sul Sole 24 Ore): “Alcuni documenti trapelati sembrano indicare che gli Stati Uniti stanno cercando di portare a casa tutele molto più estese per brevetti e copyright, in gran parte per venire incontro ai desiderata degli studios hollywoodiani e delle compagnie farmaceutiche, non degli esportatori convenzionali. Che dire al riguardo? Per esempio che non dobbiamo mai dimenticare che tutelare la proprietà intellettuale significa creare un monopolio, significa lasciare che i detentori di un brevetto o di un copyright riscuotano denaro per qualcosa (l’uso di conoscenza) che ha un costo marginale sociale pari a zero. In questo senso la tutela della proprietà intellettuale introduce una distorsione diretta che rende il mondo un po’ più povero”.

Ciò che è in gioco sono, in altre parole, le “rendite da monopolio” in un mondo in cui il vero fattore produttivo cruciale sta diventando la proprietà intellettuale e l’informazione.

L’importanza di questo tentativo è assolutamente cruciale, ciò che sta succedendo nel mondo, per dirlo con la necessaria sintesi, è una trasformazione dall’economia delle cose, o delle persone, a quella dell’informazione. Un sistema di produzione di valore nel quale la gran parte di esso è ormai contenuto nelle informazioni, nei software, … nelle “nuove fabbriche” di quella che si potrebbe chiamare una “non società dell’informazione”. A livello macro il fenomeno aggregato che emerge è quello che alcuni hanno chiamato “stagnazione secolare”, un ambiente tendenzialmente in deflazione, con prezzi in calo, disoccupazione alta e resistente, sempre maggiore distacco dal lavoro e suo impoverimento, tassi persistentemente bassi (nel disperato tentativo di reflazionare il sistema e sostenerne i valori), eccesso di debito e difficoltà a mantenere gli equilibri.

Questo fenomeno avviene in tutto il mondo, in modo ovviamente differenziato, e trova una delle maggiori applicazioni in Europa (in particolare nella parte debole).

Le cause sono come sempre molteplici, ma connesse con le radicali trasformazioni in corso delle modalità di produzione e di creazione di valore.

Visto dal lato dei grandi attori del sistema di produzione e scambio internazionali, che ispirano lo sforzo USA di ridefinire le piattaforma di scambio, il problema è di difesa dei margini di profitto, nel contesto di una competizione crescente per mercati sempre più piccoli. E una delle strategie essenziali è la creazione di monopoli, per poter scegliere i prezzi al posto del mercato. Questa tradizionale strategia diventa letteralmente vitale quando il prodotto nella sua maggior parte, o essenza, è composto di “beni” che non si consumano con l’uso, che non costa trasmettere, e che non sono facilmente escludibili come la conoscenza.

Questi beni, in altre parole, sono “a costo marginale nullo” e tendono quindi, dato che l’offerta è virtualmente infinita, a non avere prezzo. Il mercato, abbandonato a se stesso non riesce a dargli un prezzo.

Come giustamente sottolinea Krugman, questa operazione non va quindi a vantaggio generale dell’economia (perché se anche la riduzione di alcune barriere comportasse per alcuni paesi l’aumento delle esportazioni, per altri ciò significherebbe per semplice identità contabile quella delle importazioni), ma a vantaggio di chi ha solo questa strada per mantenere il suo potere di mercato: proibire la diffusione delle innovazioni e delle idee.

Alla fine a questo serve probabilmente il TTP ed il TTIP, a consentire lo sfruttamento monopolistico delle informazioni attraverso una completa e robusta estensione, nel tempo e nello spazio, dei diritti d’autore e una interpretazione quanto più estensiva possibile degli stessi.

Le due poste, messe in evidenza rispettivamente da Stiglitz (la caduta delle regolazioni introdotte nella ‘rivoluzione ambientalista’ degli anni sessanta e settanta a protezione dell’uomo e dell’ambiente) e da Krugman (la creazione di monopoli mondiali dell’informazione attraverso l’estensione dei diritti d’autore) non potrebbero essere più cruciali.

In effetti qui è letteralmente in gioco la possibilità di sostenere in esistenza il sistema capitalistico come lo conosciamo, e collateralmente probabilmente l’egemonia americana.

Perché tutto ciò non sia equivocato aggiungo che di per sé la discussione di un accordo, e di una “partership”, è una cosa buona. Ma deve essere una discussione razionale, condotta con onestà e sulla base delle migliori informazioni e dei migliori argomenti; calata in un contesto negoziale nel quale le parti siano chiare, i poteri manifesti e gli interessi visibili.

Una discussione che va condotta in pubblico. Sotto lo sguardo degli interessati.

Che siamo noi.

http://tempofertile.blogspot.it/2016/05/ttip-e-ttp-le-poste-in-gioco.html

Per il moderno piddino, il modello da imitare

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Prendo spunto da un interessante e commovente articolo su The Atlantic,La vergogna segreta della classe media americana”, in cui uno scrittore e sceneggiatore (con un libro comprato da Scorzese per farne un film) americano, che insegna part time e vive in un bel quartiere di New York, ha mandato una figlia a Stanford e l’altra ad un’altra prestigiosa università, confessa che con i suoi 120-140.000 $ all’anno di reddito non riesce a restare sullo standard atteso della “classe media” e “conta i centesimi”. Non dispone di 400 $ per far fronte a qualche improvvisa emergenza (come il 57% degli americani) ed ha consumato tutte le risorse anche dei genitori.

A volte, confessa, si trova a fare melina con i suoi ultimi 5 $, mentre aspetta il prossimo incasso, oppure ad andare avanti per giorni con solo uova per pranzo, o chiedere denaro in prestito alle figlie per il riscaldamento.

Come è arrivato a tanto? Il suo racconto è usuale, la carriera era partita benino, con qualche libro venduto (alla fine ne ha scritti cinque, biografie di persone famose), un impiego alla televisione come sceneggiatore, un corso all’università, molti premi vinti, centinaia di articoli pubblicati, una reputazione. Ma per ottenere questo bisogna vivere a New York, poi è arrivata la benedizione di due figlie, ed un reddito medio-alto presuppone di avere uno status adeguato, altrimenti il mondo non ti percepisce nella dimensione del “successo”. Quindi si usano le carte di credito senza fare caso ai tassi di “revolving” (in America una sentenza della Corte Costituzionale ha liberalizzato del tutto i tassi per le maggiori banche, che dunque non sono soggette al concetto di “usura”), si prende un mutuo nello stesso modo, convinti che la casa crescerà sempre di valore perché così tutti dicono (ancora oggi il 43% degli americani ci crede, contro ogni evidenza). Si mandano le figlie a scuola e si sostengono perché abbiano risultati eccellenti con insegnanti privati. Poi si capisce che per avere una scuola pubblica decente (quelle private sono per il 5%, non per uno che più o meno è nel terzo decile della distribuzione del reddito) bisogna abitare in un quartiere più prestigioso e ci si trasferisce. Quando Scorzese gli compra i diritti del libro si usa l’anticipo per il mutuo della casa nel bel quartiere, anche se la vecchia non è stata ancora venduta e il mutuo è vivo (non lo dice, ma probabilmente è uno di quelli con rate crescenti che alla fine picchiano), dunque arriva “l’imprevisto”: la vecchia casa non vale quanto il mutuo e lui si ostina a cercare di venderla al vecchio prezzo, dopo anni si rassegna, ma nel frattempo ha pagato due mutui. Fortunatamente capisce almeno una delle trappole che la “upper class” ha teso alla medie e rinuncia ad avere le carte di credito (che sono, in particolare in USA, delle vere truffe) e così contiene le spese. Ma le figlie devono andare all’Università e lui, essendo persona colta, sa bene che senza istruzione di alto livello (e riconosciuta per tale) nella società in cui viviamo non si può progredire e si viene condannati a ristagnare su “lavoretti”. Ovviamente per le figlie vuole il meglio, vuole il “sogno americano”, la capacità di elevarsi e stare meglio di genitori e nonni. Allora dà fondo alle riserve della famiglia allargata (ovvero dei suoi genitori) e paga le esose tasse universitarie di Stanford e il percorso didattico dell’altra figlia (Emory, WorldTeach e poi AmeriCorps e master presso l’Università del Texas).

Certo nel frattempo ha anche perso il lavoro in televisione (era troppo poco “frivolo”), e un contratto per un libro, dato che non riusciva a lavorare con la necessaria velocità per l’angoscia della situazione economica, la moglie ha lasciato il lavoro. Poi ha avuto problemi con il fisco per aver rinviato il pagamento di tasse causate dall’incostanza dei suoi redditi (un anno prende l’anticipo per un libro, poi impiega tre-quattro anni a scriverlo e vede altri soldi solo alla consegna).

Sono tutte cose che succedono, ma a quanti? Nel 2014 un sondaggio ha scoperto che solo il 38% degli americani potrebbe coprire una visita medica di emergenza con 1.000 $ o una riparazione dell’auto da 500 $ con i risparmi. Il Pew Charitable Trust ha scoperto che il 55% delle famiglie non è in grado di far fronte ad 1 mese di interruzione del reddito ed il 71% è preoccupata per le spese di tutti i giorni. Annamaria Lusardi della George Washington University, insieme a Peter Tufano di Oxford e Daniel Schneider di Princeton hanno provato a chiedere se gli intervistati potevano fare fronte in 30 giorni ad una spesa imprevista di 2.000 $: il 25% ha risposto di non poterlo fare in alcun caso, il 20% solo vendendo qualcosa o con un prestito. Secondo le loro conclusioni dunque la metà degli americani contemporanei è “economicamente fragile” e “vive molto vicino al bordo”. Un’altra ricerca ha evidenziato che il 20% degli americani ogni anno subisce una perdita improvvisa (ad esempio per spese mediche, o per interessi sul debito) e non riesce a compensarla, riducendo il suo risparmio.

Ma quanti sono questi risparmi? Edward Wolff della New York University ha verificato che il patrimonio netto è precipitato del 83% per il primo quintile più povero, e del 63% per il secondo, mentre solo del 23% per il terzo (medio) quintile. Quello mediano era di 87.000 $ nel 2003 e dieci anni dopo è sceso a 54.000 $. In questo crollo contribuisce la crisi del 2008, ma era cominciato già dalla metà degli anni ottanta.

E quanta è la “fragilità”? O, in altre parole, in caso di interruzione del reddito per quanto tempo una famiglia in età lavorativa riesce ad andare avanti con le normali spese? Per Wolff, liquidando tutte le attività finanziarie meno le case, si ha questa risposta: per il 40% più povero 0 giorni, una famiglia del 20% di mezzo (cioè mediana), che mediamente ha un reddito totale di 50.000 $ all’anno, può andare avanti per 6 giorni (ho scritto bene). Una del 20 % più in alto (cioè nel penultimo quintile, classe medio-alta), per 5,3 mesi.

In altre parole, ovvero con quelle di Wolff: “la tipica famiglia americana è in condizioni disperate”.

Quali sono le cause di questa situazione? Certamente una delle cause principali è la finanza predatoria che negli anni novanta ha avuto “libertà di caccia” da parte di una politica ormai completamente catturata ai suoi interessi. Sono emerse carte di credito sempre più ingegnose, che promettevano in sostanza di comprare tutto con niente, e in particolare per chi non è uso a comprendere i misteri degli interessi composti sembravano l’eden mentre erano la porta dell’inferno. Oppure nuovi mutui a tassi variabili e scalari che sembravano dare ad ognuno la possibilità di comprare la casa dei sogni a prezzi inferiori di molto agli affitti, giocando sulla incomprensione di molti della differenza tra valore reale e nominale, ovvero degli effetti dell’inflazione. Ancora strutture assicurative incomprensibili, titoli strutturati che anche un laureato in finanza a Princeton farebbe fatica a comprendere vendute a professori di storia (come il nostro simpatico protagonista).

Sono questi pesi, accumulati nel tempo, che creano questo effetto straordinario, un professionista apparentemente di classe medio-alta, che guadagna cifre a cinque zeri all’anno che non riesce ad allontanarsi da poche centinaia di dollari sul conto corrente. Che sta costantemente a seguire affannosamente le bollette di questa o quella utenza, o, soprattutto, questa o quella rata di uno dei suoi numerosi debiti autoalimentati.

In una società strettamente individualista, in cui tutto (la televisione, il cinema, i media, la stampa, l’arte, la cultura in generale) guarda al primo 1%, e soprattutto ai pochi e ricchi, al 0,01 protagonista delle soap di successo, o all’ 0,1, o al massimo al’10% che via via brilla nelle sue grandi ville, con le macchine, i vestiti, le feste, si creano le condizioni per diventare prigionieri del “sogno”. Quando i consumi distintivi (tra i quali metto anche quelli di istruzione, Stanford, gli “estorsori” come dice il nostro amico) esplodono verso l’alto e abbandonano ogni rapporto di continuità con quelli medi e bassi, si scopre che posso avere la televisione, ma non posso avere l’istruzione o una sanità di qualità. Che se cerco di giocare la partita alla quale “il sogno” mi ha preparato l’America mi respinge e mi colloca nella prigione dei debiti.

Del resto se non gioco sono debole, sono indegno, sono un “fallito”. Essere deboli, in una società in cui ognuno è solo, perché le organizzazioni di mutuo soccorso sono scomparse e lo Stato è dalla parte dell’1%, della finanza estrattiva, significa scomparire. Solo i capobranco sono apprezzati.

Questa è, in effetti, l’opposto di una società; uno standard per definizione irraggiungibile che è esposto esclusivamente per rendere deboli e fragili.

“Vae Victis”!

Le conseguenze di questa “impotenza finanziaria” indotta coscientemente sono enormi, come scrive l’articolo “la mancanza di denaro rovina definitivamente tutto”, in una cappa di miseria resti sveglio la notte a rimuginare, perdi capacità di lavorare e lucidità (come mostra bene “Scarcity” il libro di Mullainthan e Shafir, di cui avevamo parlato), la tua autostima viene mangiata, quindi la tua fiducia ed energia insieme alla speranza. Ma diventi anche solo, nessuno resta vicino ad un “vinto”. La miseria acquisita mette i coniugi l’uno contro l’altro, in una spirale di accuse reciproche, e anche figli contro genitori. La vergogna copre tutto, almeno fino a che pensi di essere solo.

Ma la perdita del senso di stare avanzando, quando coinvolge intere comunità, come sta avvenendo, si trasforma in rabbia politica.

La conseguenza è Trump.

Come dice un altro antico detto: “chi semina vento raccoglie tempesta”.

“Vae Victis”: La condizione disperata della Classe Media americana e le sue conseguenze.

il MEF favorì Morgan Stanley

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L’accusa è pesantissima e apre scenari inediti: sarebbe stato commesso un danno erariale da 3,8 miliardi di euro nella ristrutturazione dei derivati sottoscritti dal Tesoro con la banca d’affari Morgan Stanley avvenuta nel 2012. A formularla è la Procura regionale della Corte dei conti del Lazio guidata da Raffaele De Dominicis grazie alle indagini condotte dal Nucleo di polizia tributaria di Roma. Al centro, le clausole capestro fatte valere dalla banca a fine 2011 e garantite dal Tesoro. I cui vertici – risulta al Fatto – sono ora “molto preoccupati”.

Poche cose in Italia sono coperte da segreto come i derivati di Stato sul debito pubblico. Al momento, stanno causando una perdita potenziale di 42,6 miliardi (dati 2014), ma non si può sapere se sarà effettiva perché i contratti sono segreti. I derivati sono una scommessa tra due soggetti: se si verificano alcune circostanze, uno perde e l’altro vince. I più diffusi, e usati dal Tesoro nel periodo che precedette l’ingresso dell’Italia nell’euro, sono gli Swap, utilizzati per proteggersi dal rialzo dei tassi di interesse sui titoli di Stato, come quello sperimentato nel 2011. Se questi salgono, il Tesoro risparmia, viceversa ci perde, come sta avvenendo ora. A oggi, l’Italia ci ha perso più di tutti in Europa: 23,6 miliardi nel 2011-2015, su un ammontare complessivo di 160 miliardi.

La vicenda Morgan Stanley è nota. A gennaio 2012 – governo Monti – quando lo spread era a 500 punti, il Tesoro ristruttura, perdendoci, 5 contratti derivati sottoscritti con la banca in un accordo quadro del 1994. Per i magistrati contabili, i dirigenti che li firmarono dovrebbero ora rispondere del danno. I nomi non vengono fatti, ma la preoccupazione del ministero è facile da intuire. In quel periodo al governo c’è Carlo Azeglio Ciampi, ed è un’epoca frenetica, con il Tesoro che cerca di rispettare i parametri di Maastricht per entrare nell’Eurozona. Ministro è Piero Barucci e direttore generale Mario Draghi. A dirigere il dipartimento del debito pubblico c’è Vincenzo La Via, attuale direttore generale del dicastero. Il suo sostituto, Maria Cannata, in un’audizione ha spiegato che ad approvare l’accordo fu Mario Paolillo, all’epoca alto dirigente del Tesoro, ora deceduto. Ma queste operazioni non si fanno all’insaputa dei vertici, e infatti se venissero ripetute ora, a firmare sarebbe la Cannata. La vicenda emerge nella relazione generale tenuta da De Dominicis per l’inaugurazione dell’anno giudiziario e svelata dai deputati di Alternativa libera Possibile: “Vista la portata della notizia, ci chiediamo dove sia la relazione che la Commissione Finanze della Camera doveva fare e di cui si sono perse le tracce nel rimpasto dei vertici. Perché non vengono fornite informazioni sui contratti?”, accusa il deputato Massimo Artini.

Torniamo al 1994. Nell’accordo quadro, il Tesoro garantisce alla banca una clausola “unilaterale” Additional termination events (Ata): se si fosse trovato esposto oltre un certo livello, Morgan Stanley “poteva chiedere la chiusura del portafoglio”. E questo perché il Mef “non aveva prestato la garanzia a collaterale (contante o titoli)” prevista dall’accordo. Il ministero non l’ha fatto, perché la garanzia avrebbe fatto salire deficit e debito, che invece si voleva far scendere per entrare nell’euro. Per i pm contabili, questo buco rende i contratti “non idonei” a stabilizzare il debito e il Tesoro doveva astenersi dal siglarli visto che la soglia era così bassa da venire superata quasi subito.

Le accuse di “malagestio” sono gravi e documentate: pochi uomini preposti alle operazioni; strumenti inadeguati, contratti volutamente “speculativi” etc. E poi la botta: “Le procedure adottate dal ministero violavano le norme di contabilità generale dello Stato” e “in diversi casi sembravano orientate unicamente e senza un valido motivo a favorire la banca”. Per due contratti (interest rate swap), la ristrutturazione “venne proposta da Morgan Stanley senza un valido motivo e accettata dal Mef senza esercitare alcun ruolo attivo”. Nella lista c’è poi un altro derivato, sottoscritto da Infrastrutture spa, accollato nel 2007 al Tesoro e da questo gestito malissimo. La Procura contabile ha segnalato i dirigenti firmatari e chiede 3,8 miliardi di danni. Toccherà ora ai giudici contabili stabilire se queste ricostruzioni siano fondate e in che misura.

Da Il Fatto Quotidiano del 28 aprile 2016