[pullquote]…..ormai non ci sono più tariffe da abbassare e quindi i negoziati hanno ad oggetto le altre barriere “non tariffarie”; sono queste ormai che fanno “gli affari costosi” per le grandi multinazionali. Di qui l’enfasi sulla “armonizzazione” (al ribasso) in favore del profitto. Il punto è che qui si parla solo del profitto delle grandi società sostanzialmente a danno dei beni pubblici tutelati dalle norme in oggetto (protezione dell’ambiente, del lavoro, della salute, della sicurezza)…[/pullquote]
In questi giorni si sta nuovamente, dopo le rivelazioni di Greenpeace, riaccendendo la polemica sulle oscure trattative per la stipula del Trattato commerciale TTIP tra l’Unione Europea e gli USA che sono in corso dal 2010.
Entrambe le squadre di negoziatori, come è del resto consuetudine in questo genere di trattati, operano al coperto di imponenti misure di riservatezza che sono erette anche verso i rappresentanti politici del Congresso USA e del Parlamento Europeo. I funzionari della Commissione preposti, come ha francamente ammesso ad ottobre Cecilia Malmström, che è il Commissario al Commercio Europeo, non reputano di dover rispondere al popolo europeo. Testualmente il funzionario ha risposto “il mio mandato non deriva dal popolo europeo”. Su un livello si potrebbe dire che viene dai “governi” europei (che, tuttavia dovrebbero rispondere al popolo), ma più precisamente, ad un livello più specifico, credo si possa dire che viene da quei segmenti di quel mondo separato che l’ultimo Dahrendorf, ad esempio, chiamava non senza preoccupazione “nuova classe globale”.
Pensiamoci un attimo, l’insieme delle tecnostrutture specializzate negli uffici della Commissione Europea, degli stessi Commissari in quanto cooptati, delle strutture decisionali e degli occupanti delle sedi di rappresentanza a Bruxelles delle migliaia di aziende con proiezione internazionale e delle loro organizzazioni di secondo livello, degli uffici di indirizzo e sostegno dei diversi stati membri, dei delegati nazionali, dei tanti professionisti specializzati nella “traduzione” di questi diversi input normativi ed organizzativi centrali e periferici (e quelli delle organizzazioni di mezzo di cui parla Kjaer), … le procedure di accesso selettivo di cui parla Scharpf, tutto questo consolida quello che potremmo chiamare “un consenso”. E che, volendo dargli una etichetta, potremmo chiamare “Il Consenso di Bruxelles”.
Sia chiaro, nel dire questo bisogna comprendere che non si sta evocando alcuno oscuro complotto, è tutto aperto ed alla luce: il “consenso” non è una decisione presa da qualcuno, non è un protocollo, un libretto di istruzioni, un club con elenchi, un luogo di riunione (anche se informa decisioni, ha protocolli, esistono libretti, ci sono club e luoghi). E’ più un ‘sistema d’azione concreto’ (vecchio concetto della sociologia delle organizzazioni di Crozier) e soprattutto una cultura condivisa.
In questo senso quelli che operano nel determinare “il mandato” cui il Commissario fa riferimento non sono i lobbisti (che ovviamente sono presenti, attivi e determinanti), ma una sorta di superclasse che esprime un potere capace di pensarsi come sovranità.
Mettiamo in un angolo questa riflessione, perché poi ci torniamo, e proviamo a chiedere quale è la materia del negoziato, per chi è negoziata e quali sono le conseguenze.
Per quel che si capisce, e non è molto, l’oggetto del negoziato è l’armonizzazione delle “barriere non tariffarie” (perché quelle tariffarie sono molto basse) rimaste dopo l’applicazione dei trattati di libero scambio negli anni duemila ed il costante lavoro in questo senso del WTO. In particolare sono in questione due dimensioni specifiche: le norme che consentono agli stati, ed alla UE, di applicare misure di restrizione dei commerci per salvaguardare salute e sicurezza dei cittadini incluse nei Trattati WTO; e quelle che limitano (o estendono) i diritti di proprietà intellettuale. Sono due questioni di grandissima importanza.
Dal punto di vista del sistema d’azione cui risponde “il mandato” del Commissario (e dei negoziatori USA), però, sono questioni relativamente ovvie: le due limitazioni ostacolano l’efficienza del sistema economico. Ovvero, specificamente, ostacolano il profitto dei suoi attori essenziali (quelli rappresentati). Per la sovranità che si esprime (e che non è quella democratica) la questione si pone dunque in termini di funzionamento. Qualcosa di mal definibile (ma altrimenti non produrrebbe “un consenso”) che è considerato come assoluta banalità-in-sé perché del tutto “naturale”.
Dal punto di vista delle élite, anzi della concatenazione di queste con sistemi di regole e strutture, è, in effetti, la natura stessa del mondo (nel suo necessario funzionamento economico e sociale) che è in gioco.
Ma ci sono anche altre visioni: Stiglitz, ad esempio, argomenta che gli accordi, negoziati non a caso in segreto, vertono in realtà sulla facoltà delle grandi aziende multinazionali di proteggere i loro potenziali profitti dalle norme ambientali, di sicurezza sul lavoro, o di protezione dai rischi finanziari. “L’armonizzazione normativa”, che dicono di perseguire, è infatti chiaramente verso il basso, l’unico valore che sembra riconosciuto meritevole di tutela è il profitto. O, visto da un altro lato, l’efficienza. Anche in base alle altre bozze trapelate (sull’accordo gemello, il TTP) l’impressione del nobel americano è che tutto andrà a esclusivo beneficio della “ricca scheggia della élite americana e mondiale”, contro tutti gli altri.
Il motivo specifico è che ormai non ci sono più tariffe da abbassare (infatti sono già irrilevanti) e quindi i negoziati hanno ad oggetto le altre barriere “non tariffarie”; sono queste ormai che fanno “gli affari costosi” per le grandi multinazionali. Di qui l’enfasi sulla “armonizzazione” (al ribasso) in favore del profitto. Il punto è che qui si parla solo del profitto delle grandi società sostanzialmente a danno dei beni pubblici tutelati dalle norme in oggetto (protezione dell’ambiente, del lavoro, della salute, della sicurezza).
L’idea sembra essere di usare questo chiavistello per riposizionarsi nel mondo che c’era prima dell’ondata normativa degli anni sessanta e settanta.
Specificatamente i punti critici sono la facoltà di accesso al Tribunale Internazionale, per mettere sotto accusa lo Stato di turno e le sue norme, quando una società internazionale che opera in esso reputa che il suo diritto a conseguire un legittimo profitto ne viene ferito. Un settore in cui tale criterio potrebbe essere utilizzato è quello della vendita di prodotti potenzialmente pericolosi, come le sigarette, o coperti da brevetti, come i farmaci.
Chi sostiene l’accordo utilizza teorie che Stiglitz denuncia come “false”, ma ancora in circolazione sostanzialmente perché “servono gli interessi dei ricchi” (sono quindi molto vantaggiose per chi le avanza e la sua organizzazione). Tra queste non esita a citare la comune teoria del “libero commercio” (cioè quella visione secondo la quale esso è sempre un bene); secondo la quale, anche se ci sono vincitori e vinti, non può essere un problema, perché il saldo è largamente positivo e ci sarà comunque modo di compensare i perdenti (con i sussidi di disoccupazione, o con altre politiche di risarcimento).
Questa antica teoria si basa su numerosi presupposti impliciti sbagliati: il primo è che i lavoratori si possano muovere senza problemi tra i posti di lavoro (passando, ad esempio, dal settore della produzione tessile che si sposta in India, all’informatica avanzata che cresce per gestire il decentramento) e da settori a bassa produttività a settori ad alta. In sostanza l’idea implicita è che se un lavoratore resta disoccupato mentre opera in un settore poco produttivo (e quindi debole rispetto a una concorrenza estera che era sotto controllo solo grazie ai dazi o ad altre barriere), trova subito una nuova occasione, perché nel frattempo si formano nuove aziende ad alta produttività che lo assorbono. Ovviamente perché, non essendoci (nei modelli non c’è mai) disoccupazione, il nuovo imprenditore può rivolgersi solo a lui che è libero. Peccato che quando c’è, invece, un alto livello di disoccupazione la cosa vada in modo radicalmente diverso (ed oggi in Europa c’è molta disoccupazione). Ciò che succede, in realtà, è che il nuovo disoccupato si aggiunge semplicemente ai precedenti, e contribuisce ad alzare la pressione al ribasso sui salari. Da un “occupato a bassa produttività”, si passa a un disoccupato “a zero produttività”.
Cosa succede, per quanto possa anche essere piccolo, quando l’abbattimento di alcune barriere non tariffarie, cui un dato ecosistema aziendale e sociale è adattato, vengono ridotte in direzione di quelle, molto meno esigenti, di un altro? Che quest’ultimo si trova a disporre di un immediato e del tutto gratuito vantaggio competitivo. Se l’industria del vino italiana, o francese, organizza il suo prodotto lungo tutta la filiera con criteri biologici, mentre quella americana può fare uso di tecniche e di prodotti geneticamente adattati che gli forniscono dei vantaggi ma gli impediscono l’accesso, e questa barriera cade il risultato immediato sarà una forte esportazione di vino dagli USA e importazione in Europa. Dunque la chiusura delle cantine, la riconversione dei vigneti etc. all’opera in Italia e Francia. Secondo la teoria economica ciò che cosa comporterebbe? Che i relativi fattori produttivi (capitale e lavoratori) saranno liberi di impiegarsi in qualche settore più competitivo, con vantaggio comune. Ad esempio andare a produrre elettronica industriale (in cui alcune industrie tedesche, ma anche italiane, hanno dei vantaggi). Inoltre l’effetto sarà al termine di un riadattamento globale, l’innalzamento della soglia minima necessaria per stare sul mercato. Invece di molte aziende vinicole ne avremo di meno con un mercato più grande. Anche questo, nella particolare ottica delle grandi aziende multinazionali è ovviamente un fattore di maggiore efficienza.
O, per fare un altro esempio, la prevalenza del “criterio del danno” (secondo il quale tutti possono immettere prodotti sul mercato fino a che non si dimostra che fanno male) americano sul “principio di precauzione” (secondo il quale è il produttore che deve dimostrate la sicurezza, ed in sua assenza si usa precauzione) europeo, introdotta senza precauzioni, porterebbe fuori mercato tante aziende oneste che hanno prodotti più costosi (ma innocui) a vantaggio di altre che poi bisognerebbe contestare sulla base di impegnative e lunghe procedure legali. Nel frattempo noi sopporteremmo i rischi (come gli americani).
Ci sono molte cose che possono essere obiettate: da una parte è discutibile che una forte concentrazione in poche aziende di interi settori (cioè la creazione di oligopoli) sia segno di efficienza complessiva, perché genera un sistema fragile, vulnerabile a potenziali shock e fortemente sbilanciato. Un sistema inoltre in cui si tende a generare monopoli e monopsoni in grado di influenzare i prezzi e di controllare il sistema di regolazione. Dall’altra la fase di transizione che vede normalmente molti perdenti e qualche vincente diversamente localizzato, vedrebbe la distruzione di interi settori ed il degrado di vasti territori che spesso lo restano. Ovviamente questo “effetto collaterale” in via di principio può essere risolto, con investimenti, formazione e sussidi, ma perché ciò possa accadere deve essere intanto previsto, discusso e programmato. In questo modo si vede che in una fase non certo breve ci saranno costi molto alti a carico delle pubbliche amministrazioni e dei bilanci. Nell’attuale condizione in cui le grandi aziende in pratica non pagano tasse ci saranno anche danni erariali dissimetrici.
E qui si torna al punto capitale del “sovrano”, o del “mandato”: la questione di chi e per chi firma, e del luogo in cui si negozia e come, è quella centrale. Se si compie tutto nel segreto e sotto copertura di vaghe ideologie liberoscambiste gli esiti saranno una riarticolazione in cui i perdenti sono abbandonati a se stessi senza loro colpa, se non di aver rispettato le regole che c’erano. Inoltre si avrà una drastica riduzione delle garanzie per i cittadini, e la rottura di mercati per concentrare in poche grandi aziende che eludono il fisco, grandi flussi finanziari, ed infine (ma non certo ultimo) danni erariali diretti ed indiretti per la gestione delle conseguenze.
La questione diventa di capire chi sopporta i danni collaterali. Nel quadro generale attualmente vigente in una Europa senza solidarietà questi sono a carico dei bilanci pubblici dei singoli stati, e senza ulteriori “flessibilità”. Porre invece la questione imporrebbe di leggere l’accordo commerciale nel quadro generale degli assetti fiscali.
L’enorme difficoltà di avviare questo discorso negato spiega molto bene la tentazione di raccontare la favolina del “vincono tutti” per non affrontarla.
Krugman aggiunge un’altra dimensione alla critica (in questo post ed in questo articolo sul Sole 24 Ore): “Alcuni documenti trapelati sembrano indicare che gli Stati Uniti stanno cercando di portare a casa tutele molto più estese per brevetti e copyright, in gran parte per venire incontro ai desiderata degli studios hollywoodiani e delle compagnie farmaceutiche, non degli esportatori convenzionali. Che dire al riguardo? Per esempio che non dobbiamo mai dimenticare che tutelare la proprietà intellettuale significa creare un monopolio, significa lasciare che i detentori di un brevetto o di un copyright riscuotano denaro per qualcosa (l’uso di conoscenza) che ha un costo marginale sociale pari a zero. In questo senso la tutela della proprietà intellettuale introduce una distorsione diretta che rende il mondo un po’ più povero”.
Ciò che è in gioco sono, in altre parole, le “rendite da monopolio” in un mondo in cui il vero fattore produttivo cruciale sta diventando la proprietà intellettuale e l’informazione.
L’importanza di questo tentativo è assolutamente cruciale, ciò che sta succedendo nel mondo, per dirlo con la necessaria sintesi, è una trasformazione dall’economia delle cose, o delle persone, a quella dell’informazione. Un sistema di produzione di valore nel quale la gran parte di esso è ormai contenuto nelle informazioni, nei software, … nelle “nuove fabbriche” di quella che si potrebbe chiamare una “non società dell’informazione”. A livello macro il fenomeno aggregato che emerge è quello che alcuni hanno chiamato “stagnazione secolare”, un ambiente tendenzialmente in deflazione, con prezzi in calo, disoccupazione alta e resistente, sempre maggiore distacco dal lavoro e suo impoverimento, tassi persistentemente bassi (nel disperato tentativo di reflazionare il sistema e sostenerne i valori), eccesso di debito e difficoltà a mantenere gli equilibri.
Questo fenomeno avviene in tutto il mondo, in modo ovviamente differenziato, e trova una delle maggiori applicazioni in Europa (in particolare nella parte debole).
Le cause sono come sempre molteplici, ma connesse con le radicali trasformazioni in corso delle modalità di produzione e di creazione di valore.
Visto dal lato dei grandi attori del sistema di produzione e scambio internazionali, che ispirano lo sforzo USA di ridefinire le piattaforma di scambio, il problema è di difesa dei margini di profitto, nel contesto di una competizione crescente per mercati sempre più piccoli. E una delle strategie essenziali è la creazione di monopoli, per poter scegliere i prezzi al posto del mercato. Questa tradizionale strategia diventa letteralmente vitale quando il prodotto nella sua maggior parte, o essenza, è composto di “beni” che non si consumano con l’uso, che non costa trasmettere, e che non sono facilmente escludibili come la conoscenza.
Questi beni, in altre parole, sono “a costo marginale nullo” e tendono quindi, dato che l’offerta è virtualmente infinita, a non avere prezzo. Il mercato, abbandonato a se stesso non riesce a dargli un prezzo.
Come giustamente sottolinea Krugman, questa operazione non va quindi a vantaggio generale dell’economia (perché se anche la riduzione di alcune barriere comportasse per alcuni paesi l’aumento delle esportazioni, per altri ciò significherebbe per semplice identità contabile quella delle importazioni), ma a vantaggio di chi ha solo questa strada per mantenere il suo potere di mercato: proibire la diffusione delle innovazioni e delle idee.
Alla fine a questo serve probabilmente il TTP ed il TTIP, a consentire lo sfruttamento monopolistico delle informazioni attraverso una completa e robusta estensione, nel tempo e nello spazio, dei diritti d’autore e una interpretazione quanto più estensiva possibile degli stessi.
Le due poste, messe in evidenza rispettivamente da Stiglitz (la caduta delle regolazioni introdotte nella ‘rivoluzione ambientalista’ degli anni sessanta e settanta a protezione dell’uomo e dell’ambiente) e da Krugman (la creazione di monopoli mondiali dell’informazione attraverso l’estensione dei diritti d’autore) non potrebbero essere più cruciali.
In effetti qui è letteralmente in gioco la possibilità di sostenere in esistenza il sistema capitalistico come lo conosciamo, e collateralmente probabilmente l’egemonia americana.
Perché tutto ciò non sia equivocato aggiungo che di per sé la discussione di un accordo, e di una “partership”, è una cosa buona. Ma deve essere una discussione razionale, condotta con onestà e sulla base delle migliori informazioni e dei migliori argomenti; calata in un contesto negoziale nel quale le parti siano chiare, i poteri manifesti e gli interessi visibili.
Una discussione che va condotta in pubblico. Sotto lo sguardo degli interessati.
Che siamo noi.
http://tempofertile.blogspot.it/2016/05/ttip-e-ttp-le-poste-in-gioco.html